Memoria.

Io questa "recensione" non la volevo scrivere, ancora non so se la scriverò, è solo che sento una rabbia infinita in questo momento e allora ho come la speranza di poterla esorcizzare scrivendo tutto quello che mi passa dentro adesso senza pensare, senza ragionare, così come viene.

Mi chiedevo pochi istanti fa a che servono gli anniversari, le giornate della memoria, quando basta guardarsi intorno dall'Iraq, al Ruanda, alla Palestina per constatare che l'uomo dalla sua storia ha imparato poco e niente. Eppure pochi momenti fa, pensando che oggi è il 27 Gennaio, giornata dedicata al ricordo della Shoah, ho come sentito l'impulso irrefrenabile di riascoltare per la millesima volta un disco doloroso come pochi: Dybbuk di Moni Ovadia. Un disco particolare perchè concepito nell'ambito di uno spettacolo teatrale dedicato appunto alla memoria della Shoah.
Il Dybbuk nella tradizione ebraica è lo spirito di un uomo morto di morte violenta. Uno spirito inquieto, assetato di vita, di quella vita rubata, strappata ingiustamente senza una vera ragione, che non sia la follia dell'uomo. Il Dybbuk chiedeva memoria. Memoria di qualcosa che non ho mai vissuto, ma che nessuno avrebbe mai dovuto vivere. Il Dybbuk mi diceva "Ascolta, ricorda quello che non puoi ricordare". E io ho deciso di ascoltare, trovandomi ancora una volta davanti a un insieme di sensazioni indecifrabili che questa musica trasmette.
"Perché la musica ha un significato che trascende le note stesse?" Un giorno qualcuno lo chiese al compositore Aaron Copland e lui pressapoco rispose "Certo, ha un significato". Quindi l'interlocutore soggiunse: "Ed è possibile tradurlo in parole." Lui disse che non era possibile.
Così io non so davvero come trovare le parole per esprimere il dolore che emerge con una forza intraducibile da queste note, dai violini impazziti, dai violoncelli, dalla voce straziante di Moni Ovadia, che diventa testimone di un dolore che non appartiene a un popolo, ma all'uomo. Inquieta la spiritualità di brani come "Es Brennt", scritta nel 1938 dinanzi all'incedere del disastro:

Brucia fratelli, brucia
la nostra povera città già brucia
venti malvagi pieni di ira
si alzano irrompono e soffiano violenti
le fiamme selvagge si fanno più possenti
tutto intorno già brucia...

Poi senza alcun accompagnamento musicale, la voce solitaria di Moni Ovadia riesce a distruggere l'anima quando intona in un drammatico crescendo le parole di "Piskhù li":

Aprimi le porte della giustizia
io vi entrerò.

E il senso della tragedia diviene insopportabile nel momento in cui si apprende che "Piskhù li" era un canto paraliturgico khassidico, che gli ebrei khassidim intonavano prima di essere condotti nelle camere a gas. Loro, proprio loro, che per formazione culturale e religiosa erano stati allevati all'idea che mai si dovesse versare il sangue dell'uomo, si ritrovavano a dover passare per mano della lucida follia di altri uomini per il camino. Der camin ...

Il suono drammatico del violoncello che introduce "Oy Avraham", unendosi progressivamente con il flauto, i violini e tutti gli strumenti della tradizione musicale ebraica, evoca la bellezza di questo popolo, la sua allegria, la sua energia che doveva essere cancellata dalla faccia della terra per un disegno folle. Ma i momenti di questo tenore non finiscono, perchè gli inni alla resistenza del ghetto, come "Zog Nit Kain Mol", hanno tutta quella vitalità e forza della cultura ebraica capace nei sui infiniti itinerari di assorbire come una spugna tutti i fermenti culturali dei paesi con cui veniva in contatto. In questo caso si avvertono, ad esempio, le influenze dei Balcani. Queste musiche hanno, dunque, anche la forza e la ricchezza della contaminazione, che può e deve trarre origine dall'incontro di culture e diversità, che si voleva annullare per una pallida idea del mondo senza colori e contrasti.
Accanto alla tragedia poi compare anche l'ironia, il sarcasmo come armi per difendersi dalla fame e dalla miseria, affioranti tra le note e le parole, come quelle di "Tsen Brider /Mir Leben Eybik" che descrivono come dieci fratelli di commercio in commercio inizino a sparire dalla faccia della terra finchè:

Eravamo due fratelli
abbiamo commerciato in ossa
uno di noi è morto
sono rimasto solo
ero un fratello per me
abbiamo commercializzato in candele
e io sto morendo giorno dopo giorno
perchè non ho più niente da mangiare.

E alla fine di questo percorso di memoria ho sentito il Dybbuk placarsi nella rabbia, ma non nel desiderio di una vita strappata. Ora c'è silenzio, è una bella notte, le stelle sono un'assemblea dinanzi ai miei occhi, le guardo e immagino che ognuna di esse sia un Dybbuk, sia l'anima di un uomo ingiustamente rubata alla vita. Anime di ebrei, ma non solo. Le vittime dell'uomo sono in ogni luogo, in ogni tempo, anche adesso mentre scrivo queste parole.
Non dimentichiamole mai, non lasciamo che le nuvole ci rubino la loro vista e non solo nei giorni appositamente segnati sul calendario, ma sempre.

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