Innanzitutto dovete immaginare.

Immaginate un enorme sfondo di velluto nero, grande quanto solo l'universo può essere, punteggiato dal lontano baluginare di stelle ormai morte di vecchiaia, la cui luce non ha ancora smesso di attraversare lo spazio e il tempo.
Immaginate pianeti grandi mille volte la terra che ruotano pigramente sul proprio asse, sistemi solari che collassano, provocanti corpi celesti che sfilano per le galassie mettendo in mostra le curve.

Quello sarà il palcoscenico per il nostro spettacolo.

Racconteremo di eserciti l'uno contro l'altri armati, stormi di astronavi grandi come città, impossibili da contare. E parleremo di milioni di spie colorate che nascono e muoiono nel buio. Di orchestrine da jazz club dell'iperspazio dove ricchi processori in carriera si ritrovano a scambiarsi un paio di tera di chiacchiere dopo una dura giornata di lavoro.
Saranno storie di esplosioni termonucleari. E di silenzio.

E ora, cercate di capire.

"Brain Massage" ('10) è l'album di debutto dei Mother-Unit, il progetto solista di Bertus Fridael, già chitarrista dei mai troppo celebrati/compianti 35007: quattro brani, per oltre 40 minuti di space rock strumentale, in cui si celebra l'unione carnale tra il sudore delle distorsioni e l'asettica compostezza della cibernetica, la liscia lucentezza dell'acciaio saldato al plasma e la carta vetrata a grana grossa delle chitarre.

E' un disco che non aggiunge praticamente nulla a quanto già fatto sentire dai 35007 nel periodo immediatamente precedente alla svolta strumentale: ne riprende le architetture sonore, le atmosfere kosmo(legs)allucinate, i loop di basso-chitarra-batteria da seduta di ipnosi, il rifferama stoner oriented mescolato a carghi interstellari di synth, hammond ed effettistica.
A ben sentire, lascia negli occhi riflessi trasparenti di esplosioni già ammirate e sotto le unghie polvere di meteoriti ormai raffreddatisi. Forse per il modo in cui ripropone/ricicla certi marchi di fabbrica dei Loose, oppure per la prevedibilità di certe soluzioni o, ancora, per la minor cura dei suoni.

Poi, però, al minuto 4:45 dell'opener "Birth - Faith - Death", succede più o meno quello che aspettavo da quando ho saputo che i 35007 si erano sciolti: qualcosa ti esplode fra le orecchie ed è come se, dal cornicione di un palazzo, un'astronave si mettesse ad urlare all'universo intero che ha deciso di farla finita. Come se una ballerina androide danzasse sulle punte al suono di un milione di clave spezzate da un'orda di uomini delle caverne.

Ecco, è più o meno questo che vorrei farvi capire.
Aspettavo un disco che sapevo non sarebbe mai arrivato. Mi sono ritrovato per le orecchie un disco che, almeno in parte, colma quel vuoto che i Loose avevano lasciato.
E, semplicemente, non mi importa se non è un capolavoro.

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