“Drones” era essenzialmente un’operazione nostalgia, dobbiamo ammetterlo, volevano forse fare i rockettari cazzuti per ricordarsi un po’ da dove erano partiti e forse lusingare qualche vecchio fan; ma era decisamente troppo pensare che i Muse volessero definitivamente mettere da parte la sperimentazione e proseguire su quella strada, mettendosi a fare definitivamente la “rockband” composta, alla lunga si sarebbero annoiati, perché i Muse sono molto di più e lo hanno sempre dimostrato, a loro essere rocker è sempre stato stretto e “noioso” e credo sempre lo sarà.

Ecco che infatti stavolta il trio del Devon prende la strada totalmente opposta, quella dell’elettronica; sembra quasi che questo “Simulation Theory” voglia essere la controparte perfetta di “Drones”, la diretta conseguenza, ho la sensazione che qualcuno avrà sicuramente pensato che il suo seguito avrebbe preso tale piega, come se la cosa fosse un tantino prevedibile; mentre “Drones” si focalizzava infatti sull’uso massiccio della chitarra qua invece la chitarra è decisamente poco presente, praticamente un contorno, tutto in favore di sintetizzatori e strumentazione elettronica; un balzo notevole, dal disco più rock a quello meno rock di tutta la discografia, dal più chitarristico al meno chitarristico, tutto nel giro di tre anni, da un album all’altro; un film che però sembra già visto di recente: anche i Linkin Park nel 2014 hanno pubblicato l’album più rock della propria discografia, “The Hunting Party”, quasi a dimostrare che vi è ancora una certa voglia di un prodotto che suoni dannatamente rock’n’roll, per poi (anche qui la distanza è di tre anni) ributtarsi su qualcosa di più elettronico, anzi con una veste sempre più pop e sempre meno guitar-oriented, con il disco successivo “One More Light”.

Matthew Bellamy in una delle interviste che hanno preceduto l’uscita dell’album ha simpaticamente accusato il rock di essere ancora troppo legato alla sua natura chitarristica, sottolineando invece che tale sua natura è ormai superata ed anacronistica; una dichiarazione che fatta dopo un disco come “Drones” può risultare addirittura incoerente ma senz’altro ha ragione. Ci sono ancora troppi rocker vecchio stampo che credono che il rock debba essere solo uno sfogo di chitarre, così come sempre un po’ troppe sono le band che mantengono la tradizione e ripudiano la sperimentazione che la tecnologia offre; capita spesso di imbattersi in qualche purista che critica la propria band quando si mette ad usare massicciamente sintetizzatori e tornare a nutrirvi stima quando smette di farlo, spesso sono metallari; persino un meme che vidi su Facebook tempo addietro scherniva simpaticamente i rocker vecchio stampo dicendo che “fanno lo stesso da 50 anni” mentre i musicisti nell’ambito dell’elettronica progrediscono e sperimentano…

Per i Muse la sperimentazione elettronica e la tecnologia non sono certo una novità, la band ha sempre fatto largo uso di sintetizzatori, chitarre e bassi sintetizzati, percussioni elettroniche e altre trovate simili, anzi, fu proprio la facile concessione a tali soluzioni in album come “The Resistance” e “The 2nd Law” a spingere la band a tornare alle proprie radici rock in “Drones”; quella elettronica è una delle tante anime dei Muse, un’arma che i Muse hanno sempre saputo usare con intelligenza e saggezza, uno dei punti di forza a detta di molti ma anche un qualcosa che ha tenuto lontani dalla band molti altri. Però sottolineo che si tratta soltanto di “una delle tante”… In questo ottavo album però la band ci si butta a capofitto, vuole sviluppare questo aspetto come mai aveva fatto prima, e lo fa addirittura dimenticandosi o quasi della propria natura rock. Diciamolo senza paura, senza vergognarci, “Simulation Theory” è un album elettro-pop! E diciamolo senza altrettanta vergogna, i Muse sono un’ottima band elettro-pop! Aveva ragione una mia vecchia conoscenza che ai tempi di “The 2nd Law” sostenne che i Muse darebbero il meglio di loro stessi buttandosi sull’elettronica.

La genialità dei Muse fa sì che “Simulation Theory” suoni contemporaneamente vintage anni ’80, attuale e futurista allo stesso tempo. Facendo una panoramica sulle tracce è possibile capire meglio il tutto. L’influenza sci-fi o new wave ottantiana è riscontrabile più che mai nell’opener “Algorithm” e nella conclusiva “The Void”, guidate da synth pesantissimi ed abrasivi, con riferimenti al synth-pop ma anche all’elettronica più sperimentale, ci si possono riconoscere i Depeche Mode più teutonici dei primissimi album ma anche un Jean-Michel Jarre, tutto comunque però attualizzato; ma i Muse vogliono di più ed ecco che arricchiscono il tutto con giri di piano classicheggianti e parti orchestrali, creando un mix energico ed etereo, oltre a non far dimenticare di avere anche un’anima sinfonica, non molto rappresentata nel resto dell’album. Elettronica ulteriormente più pesante e disco-oriented in “The Dark Side”, dal sound molto robotico che ricorda certi Daft Punk. Il brano più futuristico è però “Dig Down”, uscito come singolo già nel maggio 2017, addirittura un anno e mezzo prima dell’uscita dell’album, al punto da non far nemmeno pensare che sarebbe poi finita su un album; tante critiche nei suoi confronti, come un po’ per tutto l’album, non molto comprensibili per la verità; come si fa a rimanere indifferenti e freddi di fronte al suo loop elettronico rotante e abrasivo, quasi come una mola rotante, come si fa a considerarla una semplice commercialata indegna del loro nome?!

Le critiche che forse possono un pochino essere comprese sono quelle verso “Something Human”; questo sì che appare come un tentativo di suonare attuali e modaioli, quando l’ho sentito ho addirittura pensato “cacchio, sembra un brano reggaeton!”; effettivamente il ritmo è quello, la ritmica allegra, i suoni zuccherini e leggeri, la chitarra acustica delicata ma frizzante e vagamente spagnoleggiante, nonché quella generale atmosfera da ventilata ma caliente notte d’estate, da noche latina ma tutto con una veste molto britannica; qualcuno ha commentato il video su YouTube con un simpatico “Despacito 2”, eppure i Muse sanno dare una decenza e un senso anche al più ruffiano dei brani, in più con alcuni inserti di synth più forti riescono a dargli pure un tocco futuristico, un brano “latin-futuristico” insomma; il reggaeton è un cancro da estirpare, se si è davvero amanti della musica è doveroso pensarla così… ma alt, perché qui si può dire che i Muse sono riusciti nell’impresa di realizzare “un brano reggaeton decente”, forse l’unico nella storia, scusate se è poco!

Un’atmosfera completamente diversa e che merita un discorso a parte è quella di “Get Up and Fight”: qui l’atmosfera è più da sabato sera, da discoteca illuminata d’autunno; le strofe sono in stile dance pop e forse si respira un’atmosfera frizzante e spensierata addirittura tipica di un certo teen pop, nel ritornello invece Bellamy attacca di potenza con la chitarra conferendo al brano un’energia unica, senza tuttavia mai davvero trasformarsi in un brano rock, mantenendosi sempre dannatamente pop; un’energia ed un’atmosfera simili le avevo individuate in “Earthrise” degli Haken due anni prima, quando ho sentito questo brano la mia mente è andata subito lì…

Si sfocia addirittura nel contemporary R&B nei brani “Propaganda” e “Break it to Me”, forse i due brani in cui la band osa di più: il primo infatti ha delle parti di chitarra acustica ed elettrica dal sapore persino blues o country e vocalizzi soul che si inseriscono benissimo fra le trame elettroniche, il secondo vede la chitarra protagonista con riff molto alla Rage Against The Machine, vengono persino palesemente scimmiottati gli effetti di scratch tipici di Tom Morello, in più si aggiungono suoni di archi orientaleggianti e il mix non può che essere davvero originale, forse il brano più geniale del disco.

Quindi ecco che non è proprio vero che la chitarra non è mai protagonista, un caso lo abbiamo già incontrato, l’altro è quello di “Pressure”, brano frizzante e allegro, un’atmosfera quasi da festa universitaria; ma anche in questo caso dobbiamo pensarci su due volte prima di parlare di “rock”, vuoi per il suo ritmo in stile disco, vuoi per gli azzeccatissimi inserti di ottoni, vuoi per la sua melodia leggera e spensierata, meglio parlare di brano pop, diciamo un guitar-pop più o meno scatenato. Paradossalmente il brano più rock è “Blockades”, dove la chitarra non è esattamente protagonista ma costituisce un solido appoggio ai giri di sintetizzatore; non è un brano pop come gli altri, ha un sound meno catchy e più spigoloso, sembra uscito da “Absolution” ma soprattutto da “Black Holes and Revelations”, è probabilmente il brano più classicamente Muse e quello più in grado di piacere ai fan un po’ più conservatori, è uno di quelli che mi hanno colpito di meno ma non immagino quanti detrattori l’avranno eletto il migliore del disco. Il punto più basso del disco comunque sembra essere “Thought Contagion”, che avrà pure una buona energia di fondo ma sembra non avere un’identità, non sa se essere un brano più rock o più pop, più chitarristico o elettronico, vuole essere più cose ma non ne è nessuna, alla fine risulta un brano né carne né pesce.

I Muse più futuristici di sempre, mainstream ma con classe. Mi sembra doveroso chiudere con una considerazione sull’identità dei Muse, su chi sono davvero, perché quest’ultimo disco la smaschera in maniera decisiva e definitiva. Dobbiamo essere obiettivi: i Muse non sono una rockband, sono una band che fa semplicemente musica, che compone. Rockband è chi aggredisce (nel bene o nel male) una chitarra per creare qualcosa di divertente e spensierato, per intrattenere nelle feste. I Muse invece sono una band che si lascia catturare da un’idea e la sviluppa. Se è vero che c’è gente che li ha definiti morti addirittura già dopo “Origin of Symmetry” è probabile che questi siano proprio dei classici rockettari che hanno fatto i turisti della loro discografia finché questi avevano le sembianze di una rockband cazzuta (ma quale rockband cazzuta poi, che già avevano notevoli spunti eclettici…) per poi abbandonarli quando hanno scoperto che in realtà sono ben altro, qualcosa forse di troppo grande e vario per essere compresi da semplici animali da pogo… “Simulation Theory” è solo la scoperta dell’acqua calda, quella da usare per un bel bagno rilassante ma pur sempre acqua calda.

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