L’ultima esibizione solista di Myles Kennedy nella città degli Sforza, risale a ben sei anni fa, presso lo storico Teatro dal Verme. In una prestigiosa location nata per la lirica e quantomeno adatta ad accogliere le ottave potenti ed emozionanti del leader degli Alter Bridge, si tenne un concerto dall’ottima acustica e, neanche a dirsi, davvero emozionante. Il cantante e chitarrista della band di Orlando, che collabora anche con Slash nel suo progetto solista, non ha mai nascosto l’amore per il Belpaese, nel quale ha coltivato nel tempo anche diverse amicizie.
In questa occasione, ad accogliere Kennedy sono gli spazi dell’Alcatraz, storico tempio meneghino del rock. Con lui Tim Tournier al basso e Zia Uddin alla batteria, due veterani del palco, non a caso scelti per questo tour. A fare da apertura gli svedesi Black River Delta, che in poco più di mezz’ora hanno intrattenuto i presenti con un interessante blues rock alla Black Keys.
Alle 21.05 precise, con puntualità e di soppiatto, il trio guadagna il palco, accendendo l’entusiasmo del pubblico. È subito ovazione alle prime note emanate dalle sei corde. Si parte subito con due pezzi tratti dall’ultimo lavoro in studio, “The Art Of Letting Go” (vedi mia recensione). Prima la titletrack, poi “Nothing More To Gain”, danno la scossa che tutti si aspettavano e ci fanno capire che l’acustica che ci accompagnerà per la serata sarà ottima. Mentre al Teatro dal Verme, in occasione del “Year Of The Tiger Tour”, la performance fu prettamente acustica, all’Alcatraz troviamo un sound più pesante con chitarre distorte, essendosi aggiunti da allora due nuovi lavori.
Il pubblico interagisce tanto e prima della terza canzone fa anche divertire Kennedy. Lo fa ridere così tanto da non consentirgli di tornare serio per proseguire. Qualche residuo di risata contaminerà anche la prima strofa, rendendo il tutto esilarante. Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi, quindi esplode “Devil On The Wall”, con la sua impronta southern rock, che ci fa sentire nel cuore di qualche minuscola contea americana persa tra le praterie. Un cambio di chitarra (saranno tanti e rapidissimi) per la vivace “Mr.Downside”, poi un altro per “Tell It Like It s”, tratta stavolta da “The Ides of March”, che ci catapulta sul pavimento fatto di assi di legno scricchiolanti di un qualche saloon. Gli smartphones saltano fuori a singhiozzo, perché è troppa la voglia di tutti di godersi la performance, fatta di rullate forsennate di Uddin e incroci tra il basso di Tournier e la chitarra di turno di Kennedy, che si rende conto di averci in pugno.
Dopo una breve e dovuta pausa, luci d’atmosfera introducono il pezzo dichiaratamente più amato da chi lo ha realizzato: “BehindThe Veil”. Sono trascorsi poco più di trenta giorni dalla sua pubblicazione ma i seguaci più attenti sanno di aspettarsi un lungo assolo dal vivo. Myles ha scritto questa canzone in modo che le sue sei corde possano sbizzarrirsi sul palco a piacimento. E così è stato. Le corde si piegano spinte dal plettro e sfilano sotto le dita di Kennedy. Gli occhi chiusi, le labbra che si inarcano e si stringono. Myles sembra posseduto da uno strano demone, che di tanto in tanto lo fa anche sorridere e annuire, quando capisce che quello che vuole trasmettere sta giungendo a destinazione, prima di essere esploso a dovere. Mi guardo intorno, vedo che siamo tutti fermi e nessuno si perde una nota. È il momento più intenso, intimo e profondo dell’intera esibizione e ci fa capire quanto possa essere potente la dimensione live, soprattutto se voluta fortemente da chi ne realizza i contenuti.
Il frontman parla un po’ con noi, ci ringrazia e senza volersi dilungare troppo, ci dice che ogni scaletta prevede due pezzi acustici sempre diversi. Poi attacca con la versione unplugged di “All Ends Well” degli Alter Bridge, colpendoci al cuore e portandoci alla definitiva commozione, da lui condivisa, con “Love Can OnlyHeal”, dedicata al padre e tratta dal concept album a lui dedicato. Tutto il locale intona i chorus e ognuno avverte la stessa energia.
Gli occhi si asciugano, le mani finiscono di applaudire e si torna a scatenarsi. “Miss You WhenYou’re Gone” si contrappone alla più classica “Year Of The Tiger”, facendoci sentire aria di congedo.
“In Stride” ci viene venduta come ultima canzone, prima della classica recita dei finti saluti, con sparizione momentanea del trio dietro le quinte. Il bis che pretendiamo non tarda ad arrivare e ci godiamo la tostissima “Say What You Will” fino all’ultima nota, pieni di soddisfazione per quello che abbiamo vissuto.
Si accendono le luci, mi guardo intorno, siamo davvero tantissimi. Vedo un paio di cravatte allentate su camicie dalle maniche arrotolate, che non possono nascondere le ascelle provate. Un’intera famiglia con figli adolescenti, una coppia attempata, un nutrito gruppo di amiche. Myles è a pochi metri da noi, se potesse farebbe stage diving per abbracciarci tutti, glielo leggo negli occhi. Un bambino con in testa due grandi cuffie protettive, che ha seguito buona parte del concerto sulle spalle del padre, riceve in lancio da Zia Uddin una delle bacchette che hanno percosso forsennatamente la sua batteria. Fuori dall’Alcatraz si percepisce la soddisfazione di tutti, mentre il locale si svuota e ognuno fa ritorno a casa.
Ogni tanto viene da chiedersi come faccia Myles Kennedy, dopo trent’anni e così tanti successi alle spalle, a portare avanti tre progetti con così tanta intensità e qualità.
Milano non vede l’ora di rivederlo sul palco, la prossima volta sicuramente in compagnia di Mark Tremonti (che sarà sempre a Milano a fine gennaio con il suo progetto) e degli Alter Bridge, oppure di Slash&TheConspirators.
L’importante sarà rivederlo presto.Perché è sempre un immenso piacere.
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