Myles Kennedy non è soltanto uno straordinario chitarrista e cantautore, è anche un lavoratore instancabile. Vent’anni di successi con gli Alter Bridge e ulteriori dodici a fianco di Slash (& The Conspirators), con i quali ha sfornato quattro eccellenti album, non gli hanno impedito di chiedere di più.
Quel “di più” è sempre stata la parte più complicata della questione. C’era in ballo il lato più intimo del talentuoso maestro di chitarra di Spokane, Washington. C’è sempre stata la sua timidezza, disinnescata dalla divisione dei compiti con i talentuosi colleghi, quei Creed orfani di Scott Stapp, in cerca di un nuovo frontman alla loro altezza. Forse è stata la luminosa esperienza solista di Mark Tremonti, suo socio alle corde negli Alter Bridge, a convincere Kennedy a fare il passo. Forse ha contribuito la consapevolezza di possedere un incredibile talento personale, assetato di nuova linfa. Tant'è che i dubbi si sono in definitiva tramutati in certezze.
“The Art Of Letting Go” è la terza tappa di questo viaggio in solitaria, che fa seguito al concept album “Year of the Tiger” del 2018 e al suo successore,“The Ides of March”, del 2021. Mentre il primo nasce come un disco intimo e personale, il secondo viaggia su note southern rock, con venature country, che lasciano una porta spalancata al futuro.
Per quest’ultima nuova pubblicazione, fondamentale è stata la collaborazione con il bassista Tim Tournier e il veterano delle bacchette Zia Uddin. I due hanno impreziosito il lavoro, soprattutto nella sua dimensione live, alla quale si è rivolta l’intera composizione del disco. Disco nel quale Kennedy ha deciso di inserire lunghi assoli, parentesi fertili alla coralità e in generale riff di grande impatto. Tutto questo, unito all'importanza di dover cantare ed imbracciare l'unica chitarra in scena, ha reso tutto molto più impegnativo, rendendo obbligatoria la presenza di due validi gregari.
Il titolo del nuovo album, è di per sé già molto eloquente e ci racconta l’anima delle dieci tracce. Il filo conduttore è la pace dei sensi, la capacità di non farsi contaminare dai problemi, dalle critiche e dalla negatività, perseguendo in serenità i propri obiettivi. Realizzare i nostri sogni, facendo ciò che amiamo, dritti verso la meta. Un concetto del quale Kennedy ha fatto un suo baluardo personale dopo trent’anni di ispirazione, con la consapevolezza di vivere una dimensione magica come quella solista, non esente da eventuali perplessità e critiche esterne.
Non a caso il lavoro si apre con la titletrack, guidata da sonorità blues e riff che riportano all’orecchio il tipico stile sfoggiato nella decennale collaborazione con Slash. Cosa che succederà più marcatamente con la seconda traccia,“Say What You Will”, tramite il ritmo sincopato delle percussioni e l’estro nella vocalità.
“Behind The Veil“ è dichiaratamente il pezzo preferito da Kennedy, che ha voluto inserire nel pentagramma ben due assoli, da amplificare a piacimento una volta sul palco. L’illusione di armonia, perpetrata da un pizzicato in apertura, in breve ci conduce altrove, in un’oscura dimensione mid-tempo che sfocia nel capolavoro. Mantiene un alto livello emozionale “Eternal Lullaby”. Dolce e delicata, accarezza l’anima e racchiude una dedica dell’autore a tutti quei talenti del passato che lo hanno ispirato e continuano a farlo, ovunque si trovino.
“Mr.Downside” e “Miss You When You’re Gone”, con intenti e peculiarità diversi, sembrano essere state strappate dal prossimo futuro degli Alter Bridge. Entrambe ci ricordano, ove ce ne fosse bisogno, lo sconfinato talento vocale di Myles Kennedy, che raggiunge picchi vertiginosi sui refrain.
Mentre si prosegue si ha l’immediata e mai prematura sensazione di avere per le mani un disco estremamente maturo e centrato, soprattutto per la profondità dei testi e la qualità degli arrangiamenti.
L’assoluta potenza ci arriva tramite “Saving Face”, “Dead To Rights” e “Nothing More To Gain”. Quest’ultima, con il ritmo galoppante e ancora una volta sincopato, ci riporta a sonorità proprie di band come i “Queen of the Stone Age”, conducendoci altrove per un attimo.
Durante una recente intervista, Kennedy ha raccontato di essersi ispirato al cinema durante la stesura delle tracce. Ne è testimone “How The Story Ends”, che chiude le dieci tracce. La canzone, dal titolo molto utile alla causa, si muove su sonorità orientali tramite note di sitar e rimanda alla visione del lungometraggio “Speak no Evil”, tramite episodi orchestrali e parentesi corali.
In definitiva, “The Art Of Letting Go” è il raggiungimento del punto più alto della vetta e la virtuale chiusura di una trilogia fatta di eterogeneità e qualità assoluta. Ripensando alla titubanza di Kennedy e alle paure che aleggiavano intorno a questa sua grande aspirazione, non possiamo quindi che attribuirgli un ulteriore enorme merito. Merito dal quale non è esente neppure l’onnipresente Michael “Elvis” Baskette, produttore competente e virtuoso da sempre al fianco di Mr. Kennedy e degli Alter Brige, con i quali ha potuto condividere innumerevoli successi.
Lodevole è l’arte del lasciare andare ma ancora più preziosa è quella del saper continuare. Continuare a sfornare successi, sempre guidati da una sfrenata e innata passione. Con convinzione e senza alcuna paura del futuro.
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