Era forse il disco che attendevo di più. Vuoi perché ho ascoltato spesso i Myrath per un periodo della mia vita, vuoi per il loro mix unico, vuoi perché ero curioso di sapere come sarebbe proseguito il loro cammino artistico dopo l’eccessivo e prematuro alleggerimento attuato negli ultimi due album. Nella mia recensione su “Shehili” infatti rimproverai alla band tunisina di aver distrutto troppo presto quel bellissimo metal arabo che aveva creato, specialmente riducendo all’osso la componente metal in favore di un sound sempre più etnico.

Cosa succede in “Karma”? Beh, a mio modo di sentire un parziale recupero della componente metal c’è, anche se in tanti sostengono il contrario, quando ascolto il disco riconosco che una solida base metal che permea i brani è riscontrabile, la “riffistica” tipica del genere, con i suoi colpi a martello inflitti alle corde, io la sento eccome; nella prima parte del disco a dire la verità assume una connotazione quasi hard rock o hard’n’heavy, per poi mordere un po’ di più nella seconda metà. L’unico brano dove questa base sembra mancare è “Words Are Failing”, che sarebbe stato bene sia in “Legacy” che in “Shehili”, ne sembra proprio un retaggio. E così il bel mix con cui la band si era distinta sembra essere parzialmente tornato, la sensazione di essere di nuovo di fronte ad un azzeccato oriental metal c’è. Però non bisogna assolutamente cantare vittoria, è bene avvisare chi voglia approcciarsi all’album che non conviene aspettarsi né un disco come “Desert Call” (sarebbe chiedere troppo) ma probabilmente nemmeno come “Tales of the Sands”, pena rimanerne parzialmente delusi. Cerchiamo di essere sinceri ed obiettivi, non sono ancora i veri Myrath, quelli autentici, perlomeno lo sono al 50% (possiamo fare 55-60 se arrotondiamo per eccesso); l’impostazione è ancora tendenzialmente leggera, quel metal di cui parlo è ancora piuttosto rarefatto, timido, impacciato, non è ancora in grado di soddisfare le lunghe chiome da headbanging selvaggio, si affaccia sul balcone sonoro ma non vuole davvero diventare protagonista come un tempo, la sua presenza si avverte eccome ma non sposta gli equilibri.

Perché a far da padrona è ancora la melodia, la prima cosa che si nota sono sempre le aperture melodiche, che appaiono addirittura potenziate come non mai, in particolare sono state notevolmente invigorite le parti sinfoniche, troviamo fiammate di archi ed ottoni mai sentite finora; e tutto questo prevale sulle chitarre. Si pensava che l’abbandono dello storico tastierista Elyes Bouchoucha e il definitivo inserimento dello storico collaboratore Kevin Codfert portasse ad un calo di ispirazione sotto l’aspetto melodico e invece ci troviamo un disco che pare quasi iperprodotto.

Qualcuno ha poi evidenziato l’assottigliamento dell’impronta araba, parlando di una musica complessivamente occidentalizzata; beh, quest’affermazione è tutta da mettere in discussione. Le scale tradizionali, di arrangiamenti d’archi ma anche di chitarre, sono ben presenti in tutto l’album, onestamente mi viene difficile parlare di allontanamento dalle proprie radici quando sento brani come “Candles Cry”, “Temple Walls” e soprattutto “Child of Prophecy”. Però è anche vero che le parti percussionistiche desertiche ad esempio resistono solo in “The Wheel of Time”, mentre il cantato di Zaher Zorgati non ha quasi più quella caratteristica inflessione. In generale l’impressione è che l’impalcatura del sound sia stavolta molto più internazionale, è sorretta da melodie universali all’interno delle quali vengono regolarmente infilate soluzioni mediorientali. In ogni caso non mancano brani dove l’influsso nordafricano è assai ridotto, come “Into the Light” e “Let It Go” (che potrebbero ricordare alcune produzioni più recenti e più sinfoniche dei Royal Hunt), o addirittura assente come “Heroes” (con il suo melodic-power che rimanda vagamente agli Evergrey); però non è che sia una novità assoluta, scavando nella produzione passata dei Myrath qualche volta capita di imbattersi in brani ben poco arabi, pensiamo a “Ironic Destiny”, “Shockwave”, “Time to Grow”, e poi ricordiamoci che il primo storico album della band non suonava ancora come un disco di una band tunisina.

La caratteristica fondamentale che emerge su tutte è però un’altra: il disco, nonostante il recupero di una certa aggressività, è molto orecchiabile e di facile presa, e lo è persino in misura maggiore dei meno metallici due dischi precedenti, la cosa è abbastanza paradossale. L’atteggiamento generale è addirittura quello di una pop band, e non è un’affermazione così esagerata, perché se la prerogativa pop è quella di creare melodie vivaci e d’impatto mettendo in secondo piano tutto il resto quello che loro hanno fatto qui è esattamente questo, seppur mantenendo elevata la qualità degli arrangiamenti; per esagerare potremmo dire addirittura che questi brani non sfigurerebbero affatto in un musical bollywoodiano, o in un film della Disney, la già citata “Let It Go” potrebbe effettivamente far pensare subito all’omonima canzone di “Frozen”; se invece vogliamo rimanere in un contesto hard rock/metal potremmo accostare questo lavoro all’AOR, i ritornelli brillanti tipici di questo sottogenere ci sono tutti.

Ci sono comunque segnali di maturità artistica riscontrabili in una maggior varietà di soluzioni ma anche miglioramenti sotto l’aspetto tecnico. Emerge più che mai lo stile poliedrico del bassista Anis Jouini, che maneggia le corde senza farsi troppi scrupoli, regalandoci vivaci e variegati slap e coraggiose venature funk; sapevamo che era un mostro, dopo tutto riempie costantemente il proprio profilo Instagram di video dimostrativi, ma finora non si era esposto troppo, ora invece tira fuori il proprio virtuosismo proponendosi forse come uno dei migliori bassisti in circolazione. Vetrina anche per il batterista Morgan Berthet, al suo terzo lavoro nella band, che offre una prestazione ricca di colpi a sorpresa che rivelano anche in lui un lato virtuosistico finora rimasto abbastanza nascosto.

Il risultato è comunque la conseguenza di tutta una serie di circostante che hanno ruotato attorno alla band in tutti questi anni. I Myrath erano fondamentalmente una band di nicchia ma grazie all’estrema leggerezza degli ultimi due album hanno potuto ampliare non poco la platea, arrivando anche a calcare palchi di festival più o meno affermati, era praticamente inevitabile che facessero un prodotto in grado di mantenerli su questo binario. La band non nega di aver preso una piega quasi commerciale, di essere ormai una band “mainstream” (pur non essendolo davvero). Difficile pensare che questa impennata non abbia influenzato la scrittura, una volta che sei abituato ad avere un successo importante c’è inevitabilmente una voce nella testa che ti suggerisce di mantenerlo. Probabilmente i membri della band si saranno fatti delle domande: prima avranno detto “ma non è che ci siamo discostati un po’ troppo dalle radici metal?”, impegnandosi a recuperare un sound complessivamente un po’ più tirato, poi però si saranno chiesti “ma non è che se torniamo ad essere troppo metal poi torniamo ad essere un po’ troppo ostici?” e questo li ha spinti a non alzare troppo il tiro, a non esagerare nel mettere in primo piano i riffoni di chitarra; ma anche l’idea di essere troppo esplicitamente arabi cominciava a stare un po’ stretta, a conferire un’aria forse troppo campanilista che non si sposava troppo con un progetto sempre più internazionale, di lì la scelta di limare e diluire le melodie più tradizionali.

Le mie sono come sempre ipotesi, analisi neanche troppo serie sull’inconscio di chi compone, però il risultato sotto gli occhi di tutti è quello di una band con il freno a mano tirato; non sembra un disco spontaneo in cui la band mette tutta se stessa, sembra un disco condizionato dalle circostanze, in cui i Myrath conservano le proprie coordinate ma non le sfoderano alla massima potenza come un tempo, sembrano una versione discount ed economica di loro stessi, buonissima ma ti accorgi che non è quella originale. Il brano pienamente compiuto e convincente è senz’altro “Child of Prophecy”, l’unico dove veramente i Myrath non hanno paura di mostrarsi come sono, non hanno paura né di essere metal né di essere arabi; è un brano che poteva tranquillamente stare in “Tales of the Sands”, quando lo ascolti ti mangi le mani e pensi a cosa avrebbero potuto ancora tirar fuori se lo avessero voluto.

Ma quindi l’album è consigliato o no? Certo che lo è, d’accordo, non è il primo disco che consiglierei a chi vuole avvicinarsi ai Myrath, se si vuole tastare la vera essenza dei Myrath o se si è esigenti meglio fermarsi a “Desert Call” e “Tales of the Sands”, ma se mettiamo da parte tutte le seghe mentali e tutte le osservazioni del caso il disco suona comunque alla grande, è moderatamente variegato nelle soluzioni, ha delle melodie fortissime e costruite alla grande, ha delle belle cose da dire tecnicamente, scorre meravigliosamente, nonostante tutto ha ottime probabilità di finire tra i dischi dell’anno.

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