Dopo averlo ucciso nel sonno, asfissiato dal laccio del suo kimono, ed in seguito reciso pene e testicoli, Abe Sada, in caratteri giapponesi, scrisse, con sangue, sul corpo di lui, cose come: "Abe e Kichi, noi due".

Al momento dell'arresto, "Sada afferma che il pene di Ishida era il più caro ricordo che aveva di lui e di aver provato ad avere un rapporto con il pene mutilato dell’amante, ma senza successo."

Abe Sada è diventata nel tempo una figura iconica della cultura giapponese del novecento, le cronache raccontano di quanto lei addirittura suscitò un'inaspettata (e per certi versi ancora oggi sorprendente) empatia nell'opinione pubblica giapponese, tanto da valerle una pena irrisoria visti i fatti; e la sanguinaria vicenda di passione estrema e morte, che, mai come in questo caso, si ritrovano legati ad unico e stretto filo (Eros & Thanatos), una delle più celebri e paradigmatiche legate alla terra del Sol Levante. Tanto da ispirare libri, documentari e due film: Abe Sada - L'Abisso dei Sensi, che in pochi conoscono, fu il primo, ma venne totalmente oscurato dal più famoso ed estremo dei film sulla vicenda ed in generale della filmografia di uno dei più grandi ed iconoclasti autori del cinema nipponico, Ōshima Nagisa.

L'Impero dei Sensi è una pellicola che, nella sua eccezionale ricostruzione d'epoca e d'ambiente, nelle sue rigide inquadrature in interni, nella ricercatezza formale e cromatica, nella crudezza di come mostra rapporti sessuali reali, possessione e possessività, alienazione dal contesto sociale in nome di una carica erotica totalizzante portata alle estreme conseguenze, costituita da pratiche via via più ardite e "malate", è capace di scavare un solco nella filmografia cosiddetta erotica, colpendo ben più duramente di un Ultimo Tango a Parigi e risultando potentissimo, nella sua vicenda senza tempo, anche oggi ai tempi di von Trier e Noé.

Di produzione franco-giappnese (dove il film non sarebbe mai potuto essere girato così com'è, ma in Francia, al tempo, la cinematografia hardcore era stata sdoganata), non poteva che essere Ōshima a filmare questo lavoro che, naturalmente, come noto e nell'ordine delle cose, venne ostacolato e censurato un po' ovunque. Assieme all'altro grande anarchico della novelle vague nipponica (paragone, questo con Godard e compagnia, non completamente fuori luogo per quanto riguarda la sperimentazione di forme e linguaggio, ma in realtà, storicamente forzato) Wakamatsu Kōji, qui produttore della scandalosa pellicola.

Tra le scene d'antologia come non citare quella dell'uovo, ma film come questo, rivoluzionario per metodi e per comunque la si voglia mettere (mai prima di allora un film contenente scene di sesso non simulato era stato distribuito nei normali canali di cinema d'autore, e gli stessi, bellissimi Pinku eiga anni '60 non erano tanto espliciti), continuano a colpire ed affascinare tutt'oggi in quanto Abe e Kichi sono due figure emblematiche sospese nel tempo e nello spazio, che appartengono ad ogni epoca e classe sociale. Cui Ōshima dona spessore poetico ben oltre la mera cronaca. Il finale, così, si tinge di sacrificio consapevole e condiviso, più che dovuto a gelosia (componente sempre, e comunque, fondamentalmente presente). E, come dicevo inizialmente, Amore e Morte, mai come qui, rappresentano un'unica materia, un completamento l'uno dell'altro.

"Credo che si faccia un film perché si incontra qualcosa. Da questo incontro si riceve un'emozione. Che cosa s'incontra? Ci sono tre possibilità: le opere d'arte degli altri, i fatti di cronaca e se stessi."

Con L'Impero dei Sensi, Ōshima giunse ad un punto centrale della sua opera, al compimento di un percorso iniziato nel decennio precedente già con pellicole straordinarie come, tra le molte, Il Godimento e Il Demone in Pieno Giorno (per citarne due secondo me tra le più significative in tal proposito), che riprese poi solo un paio d'anni dopo con il suo film "fratello" L'Impero della Passione (un lavoro, questo, con lo stesso protagonista Tatsuya Fuji​, suggestivo, più visionario, ma meno estremo e riuscito, e soprattutto Soft e non Hard). Poi, certo, via con Furyo, Max Mon Amour, fino al canto conclusivo di Gohatto, tra Samurai, pulsioni (omo)sessuali e racconti di pioggia e luna. Altre storie, altri capolavori, anche questi da raccontare. Da amare totalmente.

E, a chi non ancora ha cominciato o avuto modo di esplorare l'opera di questo grandissimo autore, consiglio di rimediare, magari ora, a quasi cinque anni dalla sua scomparsa.

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