Già di per loro i Naked City sono dei pazzi furibondi, immaginatevi quando decidono di fare qualcosa di veramente pazzo cosa possa venire fuori...

"Radio" è il penultimo atto della creatura creata da John Zorn, dopo appena 5 anni di convivenza e una serie di folli lavori già alle spalle: dall'omonimo debutto (atmosfere noir da film a schegge grind) a "Leng TCh'e", composizione drone-doom di 32 minuti su una particolare tortura cinese, ma potrei citarli tutti.

L'album porta al definitivo compimento il processo musicale del gruppo: quelli che in altri album erano più mini-abbozzi di brani di generi disparati diventano composizioni vere e proprie, con durate finalmente "standard". Lo spettro di generi inoltre viene ulteriormente ampliato (alcuni brani passano attraverso più generi nel volgere di pochi secondi) e ciò da un'inedita identità a ciascuno dei 19 episodi che compongono l'album.

Come lo stesso titolo vuole sottolineare, l'idea è quella di un collage di stazioni radio. L'album si può dividere in 2 parti molto diverse tra loro: nella prima (i primi 9 brani) predominano atmosfere più rilassate e distese, con melodie orecchiabili. Basta la tripletta iniziale per metterci K.O.: "Asylum" è un compendio di genuino free-jazz di grande classe, in cui ogni musicista a turno apporta il suo contributo solistico, segue la distesa "Sunset Surfer" e le sue atmosfere da surf-music californiana, e possiamo quasi immaginarci al tramonto stesi sulla sabbia difronte all'oceano con un drink con tanto di ombrellino in mano e una bionda svedese in bikini al fianco. Il colpo di grazia arriva con "Party Girl", sfrenato rockabilly anni '50 con dei dissonantissimi e a-ritmici inserti di sax (ma quanto si sarà divertito Zorn ad inciderla?). Nei restanti brani i toni iniziano già a mutare, tra atmosfere da film polizieschi (la tesa "The Outsider"), o "Razorwire" semi-jam sessions in cui ognuno si scatena e va per conto suo. L'unico momento di pausa ci è dato in chiusura dal soffuso ambient pianistico di "The Bitter and the Sweet".

La seconda metà dell'album si apre con "Krazy Kat", una virtuale seconda parte di quella "Speedfreaks" presente nel precedente album, di cui mantiene le coordinate di fondo, e cioè cambiare genere ogni manciata di secondi... difficile da descrivere a parole, lasciatevi stregare! "The Vault", lenta e opprimente, ma con più di un risvolto funky, ci permette per la prima volta di ascoltare il re degli estremismi vocali, Yamatsuka Eye, l'unico cantante possibile per la proposta musicale del gruppo. Le sue urla lancinanti e i suoi giochi vocali, incompatibili con le atmosfere della prima parte dell'album, si scatenano in quasi tutti i restanti brani, tra frammenti grindcore disturbati e resi ancora più violenti dal sax. Neanche uno degli amori di Zorn, il klezmer, musica tradizionale ebraica, viene tralasciato ma anzi predomina in "Metaltov".

A fare da collante tra le 2 anime così diverse dell'album ci pensa la conclusiva "American Psycho", vero e proprio collage di generi musicali non più uniti tra loro ma alternati da secondi di silenzio, quasi a voler aumentare l'attesa di quello che ci aspetta: melodie swingate, jazz o blues si interrompono di colpo, 2 colpi di bacchetta e parte il terremoto sonoro con chitarre imponenti, batteria furiosa e le urla di Eye a dominare la scena. Lo stesso cantante inoltre ci da un saggio della sua estrema versatilità, tra gorgheggi al limite del soffocamento e parti simil-rappate alla Zack de la Rocha.

FOLLIA MUSICATA.

Carico i commenti... con calma