Nella filmografia di ogni autore di buon cinema che si rispetti, non può mancare un titolo sottovalutato, o almeno che non ha raggiunto la popolarità dei precedenti, vuoi per scarsa distribuzione, vuoi per la natura controversa dell'opera o per eccessiva qualità degli altri prodotti dello stesso regista. Dinanzi a un film come "Sogni d'oro" di Nanni Moretti, non so proprio quale delle tre ipotesi avallare, soprattutto se considero seriamente la terza che francamente mi risulta stupidissima poiché improbabile.

Dopo due pellicole cult come il super 8 "Io sono un autarchico" (1976) e "Ecce Bombo" (1978), Moretti prosegue con la sua ricognizione di tic e frustrazioni di una generazione che appare oggi ormai lontana ma in realtà molto più simile alla nostra di quanto non sembri. E lo fa usando il cinema come strumento di autoanalisi; qui, il protagonista Michele Apicella è un giovane cineasta che detesta i dibattiti, la madre, la psicanalisi, i giochi televisivi e gli aspiranti registi. Durante le sue conferenze è continuamente attaccato da un sedicente critico (il quale si presenta sempre sotto identità diverse) che gli rimprovera la difficoltà del suo modo di fare cinema, incomprensibile per gente semplice come "un bracciante lucano, un pastore abruzzese e una casalinga di Treviso". E' assillato da due strani fratelli che lo costringono ad assumerli come aiuto regista per il film a cui sta lavorando, "La Mamma di Freud". Trattasi della storia di un pazzo che non ha superato il complesso di Edipo convinto di essere Sigmund Freud. Il film va avanti seguendo tre percorsi: vita privata del regista intento a girare il suo film, il film nel film, e la dimensione onirica. In quest'ultima Michele è un professore di Lettere innamorato (ma non corrisposto) di una sua allieva che gli rimprovera i suoi metodi poco ortodossi.

Sarebbe facile liquidare "Sogni d'Oro" in due paroline; non si tratta di un film di transizione come molti hanno fatto credere, bensì un punto fermo dove Moretti si muove deciso a fare un certo tipo di cinema, con disinvoltura e sicurezza.

Agli inizi degli anni 80 Berlusconi inondava l'Italia di telefonate per conoscere le abitudini e le preferenza televisive della gente di allora, permettendo la costruzione di una serie di programmi di evasione in una fascia oraria che molti anni dopo si definirà come "prime time". Crisi del cinema e avvento delle televisioni regionali, primi passi del trash. Da qui nasce in qualche modo la recriminazione del "camaleonte" dei dibattiti: la casalinga e più in generale l'italiano medio preferisce la televisione al cinema più di quanto l'industria cinematografia sarebbe, nel giro di qualche anno, andata a dirotto, con produzioni di infimo livello. Qui Moretti anticipa il periodo nero degli anni 80 e lo sfascio dello spettacolo televisivo (siamo appena nel 1981!) che già era abbastanza palese. Trova pure il tempo di rendere il suo personaggio Michele Apicella ancor più nevrotico (non a caso l'allora sconosciuto Remo Remotti gli propose il suo copioncino "La Mamma Di Freud") e immergere il tutto in una dimensione onirica e confusionaria (le sequenze del sogno).

In quest'ultima emerge il vissuto, dove in esso i familiari di Moretti sono perlopiù professori e quindi rappresenta come la gioia (o la delusione) di non appartenere a quella categoria che inizialmente gli era stata imposta.

Lo stile è ancora quello, naif (e non si evolverà poi molto nei restanti titoli della filmografia Morettina), ma unico; una regia visivamente insignificante, il regista romano conferma la sua bravura con dei tocchi magici di sceneggiatura e i seri temi trattati rivestiti da commedia grottesca.

Film per pochi, impedibile per i fan del regista.

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