Si affidano ancora una volta alle capaci mani di Colin RIchardson i Napalm Death per il settimo lavoro della loro pesantissima discografia.

Siamo nel 1997, a dieci anni esatti dall'esordio e assoluta pietra angolare Scum, e rispetto agli estremismi degli inizi ci troviamo di fronte ad un lavoro molto meno caotico, meno diretto, anche se non mancano quelle fucilate Grind- Death Metal che hanno fatto scuola.

Loro sono gli inventori del Grindcore e non possono mai mettere in secondo piano un genere che hanno contribuito a creare e diffondere.

Sinistri, pesanti, granitici con derive industriali che si possono ben avvertire in buona parte dei dodici brani che vanno a costituire l'impalcatura sonora dell'album.

La produzione di Colin rende ogni singola canzone un vero e proprio tour de force immane.

Mid tempo dove giganteggia il drumming contorto con tempi dispari e sbilenchi di Danny Herrera che si conferma ancora una volta come il motore trainante di una macchina di morte rodata, aggressiva, perfetta.

Dopo una fugace fuoriuscita dal gruppo, per alcune divergenze con il bassista Shane Embury, rientra alla casa madre il cantante Mark "Barney" Greenway. Il suo marchio di fabbrica è un growl tra i più riconoscibili dell'intera scena estrema; ma questa volta, come era gia avvenuto con il precedente Diatribes, c'è spazio anche per linee vocali pulite e molto più comprensibili.

La "commerciale" Breed To Breathe inaugura la sporca dozzina; i fendenti rumorosi e caotici di Reflect on Conflit e Prelude sono i nuovi pugni nello stomaco che guardano al passato. La title track e la conclusiva The Lifeless Alarm i brani più oscuri e plumbei che ben rappresentano la svolta ed il riuscito tentativo di uscire dall'abituale macelleria uditiva. La furia ed il caos sono sempre evidenti; ma ora risultano più controllati.

Promossi anche se non a pieni voti

Diabolos Rising 666.

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