Il rituale atomico parte sgommando dalla Detroit dei primi anni '70, ringalluzzito quanto basta da interni in iguana e serbatoio pieno di "potenza selvaggia". Sculacchia in derapata tra Seattle e la Londra del '67, a lezione di guida da un capellone col vizio del glissato, fotte il traffico dell'ora di punta, passando a riempirsi il bagagliaio di effetti spaziali al "Dik Mik Market" di Notting Hill e tira dritto fino alla fine del secolo scorso, quando allo zio Wynford piaceva più il peyote che l'amatriciana.
Al volante, manco a dirlo, Eddie Glass, uno che ha scambiato gli anelli di Saturno per un circuito della Nascar, attualmente l'uomo con la pettinatura più psichedelica di tutto il condominio. Suona la chitarra più o meno come faccio io quando sono a casa da solo, alzo lo stereo a palla e inforco lo spazzolone del cesso in versione "Gibson diavoletto". Canta con quel misto di faccia da schiaffi e skatso permanente che gli ha inoculato Scott Hill e con le dita fa certe robe che una casalinga sola e annoiata non esiterebbe a definire "piuttosto interessanti".
Ha come navigatore-batterista Ruben Romano (altro trans-fugo degli stonati da spiaggia Fu Manchu), e visto che pure Nico Cereghini consiglia "Casco ben allacciato, luci accese anche di giorno e un buon bassista... sempre!", si tiene come passeggero il neo arrivato Tom Davies, curioso esemplare di stoner boy affetto dalla sindrome di Peter Pan, ostinatamente imprigionato nel corpo di un diciassettenne.
Le cronache del viaggio le trovate tutte in questo full length del 2003: un magma ribollente di hard rock imbottito di fuzz, in cui molecole di stoner e garage rock in puro "rama rama fa fa fa style" si mescolano ai gas nobili di wah wah hendrixiani.
Un disco, tanto per capirci, che ama portare la tuta spaziale sopra uno di quei completi di velluto a coste che indossava mio padre da giovane, quando aveva ancora il ciuffo e i baffi che odoravano di femmina: difficile da archiviare come l'ennesimo disco "stoner" per la naturalezza con cui mischia irruenza garage, heavy blues cazzone e sudatamente sudista, rivisitazioni in chiave Big Muff del rock d'annata (c'è solo da sperare che Page non senta mai "The Beast"), e polvere psichedelica a metà strada tra deserto e spazio siderale ("Paradise Engineer"), quasi a voler rievocare gli spiriti che infestavano l'ottimo "To The Center" ('99).
Non tutto, va detto, funziona come dovrebbe sotto il cofano dell'astronave. Perché se l'attacco della opener-title track pare davvero il delirio che si scatena allo scattare del verde, e se l'estro chitarristico di Glass riesce nell'impresa titanica di non far sembrare banale il riffing di "More", in almeno un paio di episodi (tra cui l'inutile "Electric Synapse"), la sensazione è che vi sia più mestiere che adrenalina, più frizione, che acceleratore.
Il risultato, tanto per cambiare, non è nulla di trascendentale, ma ha l'indubbio merito di riportare - almeno parzialmente - il terzetto californiano sulla rotta tracciata nei primi, eccellenti lavori, dopo la parentesi (buona, ma fin troppo) edulcorata del precedente "Charged" ('01). Un viaggio che magari non risolverà la crisi delle agenzie turistiche del rock, ma che se non altro mette in bella mostra muscoli, frangettone, chiappe che spuntano da minishirts di jeans e navicelle spaziali alimentate a Long Island.
"Quando parte "Fin" capisci che il viaggio è terminato.
Ti siedi, distendi le gambe, e guardi il sole tramontare, sapendo di poterlo fissare negli occhi senza farti male.
Cerchi il pacchetto, e sorridi quando scopri che te ne rimangono abbastanza per aspettare l'alba.
Ne prendi una. La imprigioni dolcemente tra le labbra.
Per un attimo il viso ti si illumina della luce di un falò che ti si accende tra le mani.
Inspiri..."
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