"On the beach" è il capolavoro di Neil Young: l'opera in cui confluiscono magicamente i filoni della sua estetica, mediante un'alchimia sonora stupefacente.
Esce nell'abbrivio fondamentale della vita del Loner: metà anni 70. L'onda lunga di Woodstock, il falò country-rock di "Harvest", le folle oceaniche nei tour con Crosby, Stills e Nash. Ma il lato oscuro di quella stagione non tarda a venire fuori. I fallimenti della politica, il cristallizzarsi del rock in canyon opulenti, la droga che scorre ovunque come un fiume in piena, l'incapacità di trovare nel privato un "riparo dalla tempesta", per citare il Dylan dello stesso periodo. Tutto questo concorre a formare il Grande freddo: quando ti accorgi che le cose non erano esattamente come immaginato e le illusioni sfumano nella linea d'ombra dell'età adulta. Il topos rock and roll per eccellenza, lo sturm und drang del Novecento.
Non tutti superano questo trauma. C'è chi ovviamente continua la pantomima, e sale su un palco pur non avendo più niente da dire. I più sensibili si spengono con l'ultima dose, o mediante un colpo di fucile: magari citando nel messaggio d'addio proprio un verso del Canadese (it's better to burn out than to fade away), come Kurt Cobain. Altri riflettono sul proprio ruolo quando si trovano sull'orlo del precipizio, e vengono fuori grazie all'Arte.
Neil Young si trova solo nella spiaggia dei miraggi svaniti e del disincanto. Gli fanno compagnia una tristezza cosmica, il titolo di un giornale sul Watergate, una Cadillac sepolta nella sabbia. Il rimorso per la morte per eroina degli amici Danny Whitten e Bruce Berry e lo spettro della relazione fallita con Carrie Snoodgress ("troppo spesso, quando tornavo a casa, abbracciavo la chitarra invece di lei" dirà in seguito) non danno tregua. Si è già suicidato commercialmente con "Time fades away" del 1973. Si è già tuffato nell'abisso di alcool e disperazione registrando il catartico "Tonight's the night". E in queste otto canzoni affronta definitivamente i suoi demoni.

Stilisticamente, l'album presenta Young al meglio. Attorniato di volta in volta da musicisti spettacolari (da Levon Helm a Rusty Kershaw) "On the beach" elude la dicotomia classica dei dischi del nostro eroe, tra sognante country-folk e feedback dilatato allo spasimo. Il tono dell'album varia magistralmente dall'ombroso al visionario, ancorato a una malinconia di fondo devastante. L'impeto di "Walk on" apre le danze con maestria, mentre Neil esprime il suo livore verso la critica che vuole imbalsamarlo in bella statuina a Nashville. "See the sky about to rain" attenua l'atmosfera, sciogliendosi nel piano Wurlitzer. Si materializza per incanto la spiaggia younghiana, tra vaporosi ghirigori e pura poesia.
Ma è con la terza traccia, "Revolution Blues", che l'album entra nel suo cuore di tenebra. Uno dei brani più controversi dell'intera storia del rock: dedicato a Charles Manson, ben prima che questi diventasse un'icona, via Trent Reznor. Un Young nauseato da quello che è diventata l'America nei primi anni 70, comprese le sue tronfie rockstar e la Controcultura, si reinventa più psicotico e depravato di Iggy Pop, seguendo per un giorno gli ambigui proclami rivoluzionari del massacratore di Bel Air, capro espiatorio scelto dal sistema per affossare i sogni hippie nella celebre teoria "Helter Skelter". Il pezzo è semplicemente perfetto: la sezione ritmica della Band conferisce un tiro funky mostruoso, David Crosby alla chitarra ritmica spalleggia egregiamente un Neil intento a forgiare assoli precisi e devastanti come rasoiate pur senza ricorrere al feedback. La sua voce incita all'odio e alla violenza, forgiando un quadro semplicemente apocalittico. Versi come "Well I hear that Laurel Canyon is full of famous stars But I hate them worse than lepers and I'll kill them in their cars" sono la miglior istantanea possibile dell' utopia californiana frantumata. La successiva "For the turnstiles" apparentemente riporta l'ascolto su lidi più sereni: ma è un'afasica cartolina bucolica di un'America rurale ormai perduta, tra sontuosi intarsi di dobro e banjo che propinano una brillante parodia di "Harvest". La prima facciata si chiude con l'imponente "Vampire Blues", paludosa cavalcata blues solcata da un memorabile e stridente assolo dell'uomo dell'Ontario.

La seconda parte si apre coi sette minuti della title-track: un vortice circolare e morboso, in cui il Wurlitzer (qui suonato da Graham Nash) e le percussioni di Ben Keith creano un'angoscia scintillante. Neil si scioglie nelle sue debolezze, tra una voce appesa a corde emotive sottilissime e parti di chitarre gelidamente stratosferiche. Un'agonia differita e lucida, una struggente confessione sul ruolo di rockstar e di icona generazionale. Sono sulla spiaggia ma quei gabbiani sono sempre lontani.
Quando sembra di aver toccato l'acme della tensione emotiva, arriva LA ballata di Neil. "Motion Pictures (For Carrie)". Un ponte sospeso in una valle di lacrime, sorretto dalla slide guitar di Kershaw, proteso verso l'ormai perduta Carrie: "I'm deep inside myself but I'll get out somehow/ and I'll stand before you and I'll bring a smile to your eyes".
La saga di "On the beach" si chiude nel labirinto di "Ambulance blues": ci vorrebbe una recensione a parte per descrivere uno dei vertici del rock di ogni tempo. Tutti i tasselli del mosaico si ricompongono per incanto. L'innocenza ("Back in the old folky days / The air was magic when we played..."), la paranoia post-hippie, ambulanze che sfrecciano veloci tra le rovine di un'America desolata all'ultima stazione del calvario vietnamita, il successo e il declino ("it's easy to get buried in the past/ when you try to make a good thing last"), e l'Arte come unica via per sconfiggere i propri fantasmi, come Neil sancirà definitivamente su "Rust never sleeps". Nove minuti divini, solcati da un lirismo mai così visionario e da un sound spettrale, tra sopraffini arabeschi di fiddle e sinistri soffi di armonica. Mentre Ralph Molina scandisce il ritmo a mani nude, Neil è aggrappato alla sua chitarra, oscura e inquietante. Incurvandosi su di essa uscirà dal tunnel, ed enormi amplificatori satureranno le sue ferite.

Mai Viaggio al termine della notte è stato più ispirato e toccante in ambito rock: e Neil Young è ancora tra noi.

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