«Questo vorrei che tu sapessi: c’è nella separazione lo stesso mistero che nell’incontro. Nei due casi, una porta si apre. Nel primo, si apre sul passato; nel secondo, sull’avvenire. La porta rimane la stessa». (Elie Wiesel)

“The Worse Things Get, The Harder I Fight, The Harder I Fight, The More I Love You”. Cioè, a spanne, “Le peggiori cose riceva, più duramente io le combatto, più duramente le combatta, più io ti amo”. È l’idea di una lotta ineguale, ad armi impari, con la vita. L’artista della Virginia ha vissuto una profonda crisi personale, in seguito alla morte improvvisa di entrambi i genitori e al decesso di una nonna cui era enormemente affezionata. Il legame coi nostri genitori è così intimo da essere un mistero, tanto che un assunto fondamentale dell’idea di aldilà nell’ebraismo afferma che il cuore dei padri sarà ricondotto verso quello dei figli e il cuore dei figli verso quello dei padri. Il dolore presente e lacerante per la perdita dei cari ci obbliga a riconciliare terra e cielo, in un punto di scambio tra vissuto e avvenire.

La femminilità di Neko, che conosciamo fiera e risoluta, alterca e si assottiglia, si fa insolitamente vulnerabile, in un lavoro emotivamente crudo, ma testardamente fluente, con la non desueta eleganza formale, restituendocela, alla fine, forte nella sofferenza: “Mentre mi voli accanto tu scoprirai la mia debolezza / Non sto combattendo per la tua libertà / Sto combattendo per essere saggia”. C’è una cicatrice sul cuore, da sanare il mattino di ogni giorno nuovo. Ogni vita è creativa. E ogni creazione implica un dramma, le cui ripercussioni attendono una redenzione. La solitudine, allora, che non è isolamento, è drammatica e rituale, ma anche propizia.

A sostenerla c’è un cast d’eccezione di amici e di colleghi: i Calexico stavolta al completo, i My Morning Jacket, il cantautore M.Ward, Steve Turner (chitarrista dei Mudhoney!), il musicista d’avanguardia Marc Ribot, Paul Rigby (coautore della metà dei brani), John Rauhouse, Tom V. Ray al basso, Howe Gelb (Giant Sand), Steve Berlin dei Los Lobos (sax baritono), A.C. Newman (The New Pornographers/Zumpano), le voci di Tracyanne Campbell (Camera Obscura), Rachel Flotard (Visqueen) e Kelly Hogan (una stagione coi Drive-By Truckers).

Il sound è ricco di soluzioni, sontuoso, dinamico, fragrante, meno essenziale del solito, con la consueta prevalenza del lato acustico. Begli arrangiamenti, gonfi ma sobri, che non appesantiscono, ma esaltano un songwriting passionale e trasparente. Meno viscerale, meno ferino rispetto al passato, ma nitido e a fuoco, tanto quanto la ricerca spirituale ad esso sottesa. Un album aureo, ove più che l’alt-country vige un pop-rock coeso e accortamente alternativo, che ricorre volentieri a dettami folksy. L’interpretazione canora è ancora una volta calda, avvolgente, vivida, volitiva, forte –come sempre-, ma con una grande naturalezza e capace di sorprendente misura. La voce è tremendamente limpida e potente.

Assaporiamo sulle labbra la dolcezza amara di “I’m From Nowhere” (accompagnata dalla sola chitarra) o, nel cuore, la bufera di frammenti emotivi e di rovine, trascinati nel vortice dell’introduttiva “Wild Creatures”. Un lampo: l’eccezionale potenza e la ritmica sovversiva di “Man”, elettrizzata dai ricami petrosi di Steve Turner, Case recita così: "Io sono un uomo / ciò per cui lei mi mise alla luce / io non sono stato la sua crisi di identità / Questo fu un progetto". L’allettante virtuosismo a cappella di “Nearly Midnight, Honolulu”, col controcanto di Campbell, Hogan e Flotard, è una perla che ha solo bisogno del buio per splendere. “Afraid”, cover di Nico, è prossima alla bellezza eidetica, perfetta dell’originale, di cui può solo (e non è poco) essere degna copia. Altro apice, questa volta in un equilibrio inesplicabile tra il solenne e l’assorto, è il mid-tempo della conclusiva “Ragtime”, che ospite la sezione fiati dei Calexico, Wenk e Valenzuela, e sciorina un tripudio febbrile, magnetico e inebriante.

Conclude, dunque, un percorso artistico ed esistenziale, volto ad esorcizzare la bestia nera della morte. Flettere la prigione oscura. Cogliere, con lo sguardo fisso sul male, la luce.

L’apparente arresto della vita è cellula propria dell’esistere. Per incontrare la libertà di una genesi nuova. E scommettere ancora sulla vita.

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