Un intero mondo racchiuso in tre sole canzoni. Una magia sbagliata, stonata, storta. Un distillato di blues, rock, sofferenza, luce, sconfitte, vittorie di Pirro. Se mai qualcuno mi chiedesse una sintesi di quello che è per me il rock’n’roll, probabilmente lo deluderei. Non gli darei in pasto Chuck Berry, Elvis, i Motorhead, anche se per me sono essenza e gioia del rock. Non gli darei in pasto gli U2 o Springsteen, i Lynyrd Skynyrd o i Led Zeppelin, anche se, ognuno a suo modo, hanno toccato l’assoluto. Gli darei questo stupido EP di Nick Cave e Shane McGowan: “What a wonderful world”. Probabilmente sbagliando.
Il fatto è che questi due sono veri reduci, e questo dischetto è la bassa marea del rock. Quello che succede quando l’onda magica si ritira e rimangono solo lattine vuote di birra, cicche spappolate e una solitudine fatta di pub squallidi e autogrill. Un mondo meraviglioso, vero?

In mezzo a questa devastazione, due figuri devastati dalla vita, un australiano di provincia e un immigrato irlandese vissuto nei sobborghi di Londra. Uno ha pagato il suo conto all’eroina, l’altro continua, temo, a pagarlo all’alcool. Entrambi pagheranno per sempre il conto al demone, alle sei corde che grondano sangue.
Insieme, con tenerezza e amicizia, hanno inciso un piccolissimo EP di tre canzoni: la prima è un classico, “What a wonderful world” di Louis Armstrong. Le altre due sono un curioso scambio: Nick Cave canta “Rainy night in Soho” di Shane, quest’ultimo sceglie “Lucy” dell’australiano.

Due brutti tipi, due teppisti che hanno raccontato storie di morte e paura, che si sono inoltrati sui crocicchi diabolici inaugurati da Robert Johnson senza timori reverenziali, rischiando di lasciarci la pelle a ogni passo, immersi in violenze sia sonore che esistenziali. Ma eccoli, ora.
Abbracciati, gli occhi semichiusi. Aggrappati all’unico senso di tutto, l’amicizia, l’affetto. Uno splendido video li raffigura insieme, appollaiati su due sgabelli da pub, barcollanti e teneri.
Re Inchiostro affronta la notte piovosa di Soho con delicatezza, la fa sua. La porta nel suo mondo, come se non aspettasse altro: Shane non potrebbe fare di meglio. La vecchia spugna risponde e prende di petto “Lucy”, stonandola da par suo. Non ne rimane niente, se non resti di un amore, bottiglie rotte e pioggia che bagna l’immondizia di un vicolo. Manca solo Tom Waits in questo particolare pub, e tutto sarebbe perfetto. Ma forse è meglio così, non avrei retto all’emozione.
Lascio per ultimo il brano principale: “What a wonderful world”, appunto.

Cantato da questi due scombiccherati, cambia il suo placido senso e si sporca. La serenità originaria diventa qualcosa di più profondo, che forse lo stesso Armstrong intuiva: la sua interpretazione non è così pacifica, ad ascoltarla bene. I due figli bastardi del Commonwealth portano quest’anomalia al massimo: con loro il mondo meraviglioso diventa, semplicemente, un’occasione persa.
La felicità è perduta, gli amori marciscono, la vita ha risposto picche: non ci resta che abbracciarci, bere fino a non saper più né leggere né scrivere e biascicare insieme “che mondo meraviglioso”.

Un po’ di sarcasmo, un po’ di rimpianto, uno spicchio di luce e un goccio di dolore.
Shakerare e servire.

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