Gli ultimi sei anni sono stati un autentico disastro per i canadesi Nickelback.

Attesi al varco da pubblico generalista e critica specializzata dopo l’inaspettato exploit del bellissimo “All The Right Reasons” (undici milioni di copie vendute e tre singoli da alta classifica negli USA, dopo che il precedente “The Long Road” aveva venduto meno della metà di quel “Silver Side Up” trascinato dalla stra abusata “How You Remind Me”), Chad Kroeger e compagni hanno infilato un paio di dischi da mani nei capelli (soprattutto l’ultimo, a dir poco imbarazzante “No Fixed Address”) e subìto alcune disavventure come i pesanti problemi alla voce di Kroeger (nel frattempo sovraesposto da una chiacchieratissima relazione con la conterranea Avril Lavigne).

Il tutto ha contribuito ad un’incredibile ondata d’odio nei confronti dell’onesto combo canadese, reo di aver venduto l’anima al pop più becero e commerciale dopo gli esordi marcatamente post-grunge e la svolta tra hard rock e metal di un disco sottovalutato come “The Long Road” (sentire “Because Of You” per credere).

Il gusto per le ballad da accendini (anzi, ormai da smartphone) i canadesi però ce l’hanno sempre avuto, e a dir la verità lo ribadiscono anche in questo nuovo “Feed The Machine”, anche se inframezzato da qualche bordata degna dei vecchi tempi.

La verità alla fine sta nel mezzo: i Nickelback non sono né Satana, né i nuovi salvatori dell’hard rock. Sono degli ottimi mestieranti del pop rock con un gran gusto per i riff chitarristici acchiappa padiglione auricolare (fondamentale in quest’ottica il buon chitarrista Ryan Peake), come ben chiaro già dall’opener, titletrack e lead single “Feed The Machine”: un riff davvero ispirato e potente, la solita voce calda e ruspante di Kroeger e un paio di cambi di tempo semplici ed efficaci, ed il gioco è fatto.

Ancor più graffiante la successiva “Coin For The Ferryman”, arricchita da uno splendido solo, proprio poco prima che arrivi la prima ballad (e, indovinate? secondo singolo!) “Song Of Fire”, erede delle varie (e smielate) “Far Away”, “Savin’ Me” “If Everyone Cared” e così via. Si prosegue quindi tra momenti più rudi e cattivi (“Must Be Nice”, tra hard rock ed un industrial molto edulcorato, “For The River” e “Silent Majority”) e attimi di quiete cesellati da ballad dalla struttura e dalle atmosfere ormai consolidate (“Home”, forse la migliore, “After The Rain” e “Every Time We're Together” le più rappresentative).

Non manca un brano in due parti (curiosamente nominate parte uno e parte tre), tra rock e delicatezze strumentali.

I Nickelback, come detto non sono il male assoluto: sono una band composta da buoni musicisti che suonano insieme un rock solido, dritto e rassicurante. Lo fanno bene ed il loro mestiere è evidente, ormai quasi un marchio di fabbrica. Che si siano rimessi in carreggiata non è un male, magari abbracciando i propri limiti (come fatto in questo disco) possono riconciliarsi perlomeno con il loro pubblico storico, ormai obiettivo dichiarato della band canadese.

Traccia migliore: Feed The Machine

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