Ho lo sguardo fisso su un dettaglio: l’iridescenza in alto a destra di un’opale che in questo momento è verde smeraldo. Il gioiello raffigura due pesciolini che idealmente si tuffano in verticale nella pietra preziosa incastrata nell’argento.

Ho ancora il pensiero all’appartamento nuovo, come minimo lo subaffitto. L’opale mi manda riflessi celesti.

Potrei mettere This must be the place delle teste parlanti per inaugurarlo.

No.

Lo sguardo si sposta sugli occhi, anche quelli due pietre preziose. È uno sguardo che sorride e in tutti gli sguardi che sorridono rivedo lei, che era libera, più libera di chi mi sta davanti sicuro.

Mi sono innamorato perché non avevo niente da fare, mi sono invaghito di nuovo di Bleach dei Nirvana.

Quanto suona sporco, Love Buzz primo singolo estratto, ha delle bordate di chitarra senza senso, dov’è il secondo chitarrista che si vede in copertina. Paper cuts ha una sezione ritmica senza senso, Chad Channing picchia e sputa sudore in un crescendo alla Dimension 7 in miniatura, una canzone dell’orrore in cui Kurt graffia a salire.

Il grunge o come volete chiamarlo non l’ho vissuto, nato quando quell’esplosione ha avuto impatto, l’ho assimilato dopo a grandi sorsate sin dall’infanzia. Kurt era il mio mito, l’incarnazione di un individuo che non nasconde la fragilità già nello sguardo, per me era come vedere un’emozione in carne ed ossa, uno stato d’animo in bilico tra l’esaurimento nervoso e l’odio generalizzato che tratteneva a stento. Biondo poi occhi azzurri sembrava cristo sceso in terra per la redenzione.

Quella persona, ciò che trasmetteva lanciandosi sulla batteria, scorticandosi le corde vocali, autodistruggendosi in diretta, rappresentava per me quegli atti che hanno come fine ultimo la liberazione dai tormenti interiori, la fuga dalla realtà, il cercare di restare fedeli a se stessi sotto i riflettori. Kurt era troppo sveglio per adagiarsi. Qualcuno grida Nevermind all’operazione commerciale confezionata e profumata che strizza l’occhio, mai stato di quel partito perché la bile era la stessa.

Bleach però come il titolo suggerisce, possiede qualcosa di urticante, di slavato in fretta e furia. Qui troviamo rancore grezzo, deliri di rabbia cantati a squarciagola su dei mantra svogliati in cui gli strumenti sono anch’essi stati d’animo che remano contro alla vita, inni all’autodistruzione dicevo.

E per me erano viscere trasposte in musica, era vomito secolare provocato dalla piccolezza umana che non riesce ad andare oltre il proprio naso. Era uno sfogo liberatorio. Da piccolo ascoltavo Bleach e mi sentivo pulito, come nuovo sotto un getto di candeggina bollente.

Ed ora me ne sono innamorato di nuovo a trent’anni è come compiere uno stupro dell’io fanciullesco, riassaporando sensazioni di rancidume che mi hanno fatto diventare una persona sicuramente più brutta e me ne vanto. L’odio che sbraitava Kurt l’ho introiettato, idealizzato, scrutato come fa un’amante e alla fine m’ero quasi dimenticato quanto abbia rappresentato per me.

Bleach è un capolavoro perché ha attitudine punk ma è più greve, pesta in modo giusto nel posto giusto all’ora giusta e lo fa senza stile, depravando la chincaglieria dell’orecchiabile e mantenendo allo stesso tempo l’ascoltatore incollato in un vortice di assoluta bassezza morale.

Quest’anno Bleach compie 33 anni e mi pare doveroso affermare che sia un disco di cristo.

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