La parsimonia è diventato un tratto distintivo di molti artisti in campo musicale. D'altronde la saturazione del mercato impone questa scelta e rende inutile, quando non dannosa, un'insensata iperattività. Come in ogni regola che si rispetti ci sono però le eccezioni. Steven Wilson è un'eccezione.

Titolare da tempo della sigla Porcupine Tree - con i quali ha partorito una dozzina di album -, nel corso degli anni, si è inventato un paio di progetti collaterali per dar libero sfogo a tutto il proprio ego artistico, evidentemente in ambito troppo angusto nella sola casa madre. Con l'artista israeliano Aviv Geffen ha fondato i Blackfield che, a dispetto dell'oscuro nome, propongono un pop-rock piuttosto convenzionale, diciamo un easy-listening di classe, riuscendo a piazzare finora un paio di album sufficientemente decorosi anche se molto scolastici.

Ben più pregnante il progetto No-Man allestito col vocalista Tim Bowness in piedi dal 1993, dove impiegano appena un anno per piazzare con l'ineguagliato "Flowermouth" il loro capolavoro, capace di proporre con smodata ma concreta ambizione una musica ad ampio respiro, dando un anima e un cuore pulsante ai freddi ritmi tecno-dance e non disdegnando di lambire territori prog. Non sono più riusciti a ripetersi su questi livelli sebbene gli album seguenti, fra alti e bassi, si siano sempre contraddistinti per un'estetica ricerca di raffinate sonorità, pur non aggiungendo nulla a quanto già era stato detto in partenza, fino a scadere nel vuoto parossismo di "Together We're Stranger" di cinque anni fa, ultima fatica del duo. L'album si muoveva al confine fra ambient, slow-core e chill-out estremizzando le sonorità già presenti nei precedenti lavori e risultando alla fine soltanto lungo e noioso, tanto per usare eufemismi. Esaurite le pile Steve Wilson si è preso un lustro di riflessione, ripresentandosi oggi con questo "Schoolyard Ghost", sesto disco della coppia.

A metà del guado, i due, si saranno chiesti se proseguire sulla strada ambient fino a diventare moderni eredi dei vari Eno, Budd e Hassel proponendo sì, una musica di gran fascino, ma fondamentalmente fine a sé stessa e solo per appassionati del genere, oppure fare una parziale retromarcia recuperando un po' del terreno lasciato alle spalle e reintroducendo elementi che rimandino in qualche modo alla tradizionale forma canzone, pur con tutti i distinguo del caso.

Lavoro oscuro ma non tetro, lento ma non pigro, minimale ma non lagnoso. Morbide linee pianistiche accompagnate da mellotron, tastiere e archi, quasi sempre sostenute da una sezione ritmica piuttosto soffusa, lasciano filtrare il canto di Tim Bowness per dipingere spogli quadri autunnali rigorosamente in bianco e nero. Brani dilatati ed eterei scanditi da ombrosi passi felpati si dipanano senza soluzione di continuità. Otto tracce per cinquantatre minuti complessivi riportano la coppia verso una più canonica struttura musicale tout-court senza tuttavia tralasciare atmosfere ambient che evidentemente appartengono al loro DNA. Rimosse totalmente le ambizioni barocche, tratto distintivo degli esordi e che vengono eventualmente sviluppate ed elaborate dalla casa madre Porcupine Tree, il duo ha intrapreso un cammino molto fascinoso, ma alquanto introspettivo e personale che se non fa segnare passi indietro, fatica non poco a lasciar intravedere bagliori di luce all'orizzonte, disegnando un bradicardico status quo.

Da segnalare il packaging molto lussuoso e curato, dove al normale cd è allegato un DVD che oltre a riproporre l'album in versione dolby surround, omaggia l'acquirente di tre tracce video. In definitiva un disco che non deluderà i loro fans ma che, temo, difficilmente ne farà di nuovi.

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