America.

Un locale fatiscente sulla soglia del deserto. Ombre che si allungano ai piedi di qualche solitario arbusto secco e nodoso. Ed il resto è sabbia. Terra. Polvere.

Uno sparuto gruppetto di uomini dalla pelle scura e spessa resa insensibile da decenni di raggi violenti si passano sigari smozzicati e ingannano impacciatamente l'attesa scambiandosi qualche burbera parola.
Sotto l'insegna al neon che si accende una lettera sì e tre no pregustano l'odore del legno ammuffito e dei bicchieri di Bourbon. Barbe incolte, tintinnii di bicchieri, aroma di tabacco e dita ingiallite. Vita di strada.

Polvere. Polvere. Polvere.

Questo è "Head Home". Un album anagraficamente Newyorkese che di trendy e tecnologico non ha proprio nulla. Un altro bel dischetto che assorbe tutta la visceralità del tipico, sanguigno sound americano e che andrà inevitabilmente a depositarsi sotto il filone New Weird America, in questo periodo decisamente sovrappopolato.

Ascoltando gli O'Death per la prima volta l'immagine di un gruppo di invasati over 40 dalle gote perennemente arrossate da pinte di Rouge American mi perseguitava continuamente, invece i soggetti in questione sono cinque ragazzi, invasati sì, ma twenty something appena agli albori della loro carriera. Si formano nel 2003 e iniziano ad esibirsi a New York per una serie di concerti dai quali ricavano un breve CD-R dal vivo, Carl Nemelka Family Photographs. "Head Home" è il loro secondo album datato 2007.

Vecchie chitarre acustiche, banjo e violini onnipresenti irrobustiscono aride melodie storte e precarie "intonate" dalla voce nasale, graffiata, precocemente consumata da whiskey e sigarette del vinazzato cantante. Gli O'Death partono in quarta con un ispido Alt Country spiritato e caotico, appassionati strimpellamenti di ukulele e euforici ritornelli ubriachi che si smorzeranno raramente, in occasione di nostalgiche e agrodolci ballate acustiche (Jesus Look Down, Travellin' Man).

Stuzzicano il palato con le suppliche gracchianti di "Down To Rest", ruspantissime filastrocche sguaiate (Busted Old Church), l'incedere westerniano di Lee, e due rozze cavalcate Punk con le palle ma senza chitarra elettrica (All The World, Allie Mae Reynolds) e lo soddisfano appieno con le belle "Adelita" e "Only Daughter", nenie crepuscolari che esplodono in deliri percussionistici, urla scomposte e piatti allegramente sbattuti alla cacchio e episodi decisamente Violent Femmes (Nathaniel). E mentre i nostri attaccano un'altra delle loro ruvide frenesie dal sapore squisitamente rurale, Dock Boggs spunta palesemente dal suo cantuccio, chiamato continuamente in causa da questi cinque pischelli che ne "storpiano" la musica già di per sé sporca e sgraziata strapazzandola con coretti alcolizzati, martoriate corde di violino e uno spirito volutamente caciarone.

Le sonorità tipiche della tradizione americana esasperate all'eccesso, Hillbilly indiavolato, l'alto tasso alcolico del Punk, strade sterrate e solitarie. E un vecchio è rimasto solo fuori dal bar. E' voltato verso l'orizzonte, pelle increspata e rughe profonde che nascondono anni di abbandoni, partenze, vagabondaggi e ritorni. Gli occhi stretti a fessura per schermarsi dal sole infuocato e polveroso.
"I'm not ashamed of who I am, although I'm just a travellin' man. I've got nobody left to call me friend."

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