Vi diranno che aveva una voce dura come la roccia e scura come la terra.

Che era imponente come una montagna. E che il suo viso era quello di un uccellino.

Che “il suo sorriso scioglieva i diamanti”. E che tutti, ma proprio tutti, si innamoravano di lei.

Io invece ricordo quella volta che, a occhi chiusi, invocava il ragazzo dell'acqua, ricordo il suo trasporto, la sua concentrazione sovrumana...

E poi quella chitarra, nient'altro che uno spasmo ritmico qua e la.

E ricordo quell'urlo...

Quell'urlo che all'improvviso si era messa a fare per intervallare i versi, qualcosa di così struggente, di così selvaggio. Un ululato, un lamento (qualcosa che non riesco a dire) e che, se lo sentite, non ve lo dimenticate più.

Ci si potrebbero spendere mille parole, anzi non si dovrebbe parlar d'altro, ma forse è meglio non dire niente, tanto si capisce uguale, no?

E comunque il ragazzo dell'acqua è un riferimento alla grande sete dei lavoratori neri nei campi di cotone.

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“Odetta sings Dylan”, è una di quelle opere che si avventurano sul terreno della grande misura, ovvero la scienza più necessaria la dove il problema è porger parole.

Si tratta (o si tratterebbe), affinché tutto vada come deve andare e la cosa da dire sia detta nel modo giusto, di soffiar via ogni cosa che pesa.

Una dizione intrisa di una sorta di naturale autorevolezza, fate conto. Un arrivare ad una specie di limite sfruttando al massimo il rapporto tra parola e suono.

Non crediate che sia calcolo però, che se fosse calcolo sarebbe freddezza. E' qualcosa che o ce l'hai o non ce l'hai. E Odetta ce l'aveva, non solo per via della voce, ma per anima o per attitudine.

E così le canzoni di Dylan non hanno mai avuto un vestito migliore, tanto che le parole sembrano scolpite nella pietra...

E la musica poi, la musica è una assoluta meraviglia, un folk/blues suonato con spirito quasi jazz, quasi fosse l'unione di ogni possibile suono dell'anima. Arpeggio dopo arpeggio, goccia dopo goccia, procede per accumulo tra intarsi di chitarra, perfezione di cristallo e cupa profondità.

Certo, manca l'assoluta purezza folk, manca il ragazzo dell'acqua, ma il disco, a tratti, è di una bellezza quasi trascendentale.

“Masters of war” e “Mr. Tambourine man” i brani più impressionanti. Nel primo una dolente classicità s'appoggia su un ipnotico vortice chitarristico. Il secondo è invece un pazzesco folk jazz capace di anticipare (il disco è del 65) persino il Tim Buckley di “Happy Sad

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Il culto di Dylan per Odetta è faccenda abbastanza nota, tutti sanno della svolta elettrica, pochi di quella acustica. Ma Dylan da ragazzetto era un rocker e fu proprio dopo aver ascoltato Odetta che decise di diventare un cantante folk.

Io invece l'ho scoperta da poco, trovando in rete lo scritto di un tizio che, non riuscendo a definirne l'essenza, ricorre al vecchio trucco dell'elenco. E, siccome a me gli elenchi piacciono molto, ve lo riporto pari pari.

Odetta era (è) (e sempre sarà): “straordinaria, affascinante, angelica, musicale, colorata, luminosa, dolce, struggente, incantevole, magica, blueseggiante, folkeggiante, spirituale, spiritosa, sorridente, profonda, leggera, ritmica, baritonale, acuta, mormorante, commovente, unica”.

Che dite, può bastare?

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