Bando alle cazzate, di gruppi come gli Oneida non ce n'è.
Di dischi come questo, nemmeno.
Pochi, và.

Istantaneamente, un classico. O un'esperienza dal retrogusto perverso, un po' come il calcetto saponato. Ti diverti un mondo non capendo mai che cazzo succede, dove va la palla, e dove sei tu rispetto al campo. Ma la cosa ancor più assurda è che vivi i tuoi seri problemi d'equilibrio con la sensazione di poterti rompere la testa da un momento all'altro (alla meno peggio una gamba, un braccio) eppure, giochi.
L'aggettivo giusto quindi è: ostinati. Gli Oneida sono ostinati. E la loro musica è un'avventura allucinante fatta di slogature, fratture e reiterazioni in coaguli di suoni psichedelici che grattugiano i neuroni e graffiano i gomiti.

Disco uno.
Due brani, un ipnotico assalto di frequenze ripetute e tirate a mille.
"Sheets Of Easter" è un tour de force ed un punto di domanda: si può ripetere…no, "ripetere" non è il termine più adatto...si può MARTELLARE ai limiti del sostenibile la parola "light" sullo stesso riff di tastiera e chitarra per 14 minuti e 13 secondi? Sì. O meglio, gli Oneida ci riescono. Lo fanno. "Antibiotics" è un baccanale devastante che tira fuori un riff che manco i migliori Suicide e lo sviscera per altri 16 minuti; uno schianto ossessivo tra note d'organo, feedback e miscugli vari di chitarre stridule, con la batteria che fa le gimkane sul tempo, salta, pesta, riordina e incasina tutto a suo piacimento. Rientri dal trip per ricaderci di nuovo.

Disco due.
La titletrack apre con un devastante agglomerato di distorsioni fulminanti, combustioni e avvitamenti rumoristici che girano intorno a tre note insistenti del piano.
Da qui in giù, il parossismo sonoro tra garage-glitch-noise, sperimentalismi sbilenchi a là Chrome, reiterazioni d'elettronica krautrock degne dei migliori Neu! e frattali di melodiche non-sense come solo Captain Beefheart. Ed una sensazione di caos solo apparente, appena sotto il livello di guardia, dove "People of the North" sembra un pezzo 70s affogato in microsynthetiche slinguazzate d'organo e drum machine, "Number Nine" una sospensione melodica scomposta e barcollante sopra nenie metalliche e grottesche che la batteria libera in vortici psichedelici e "Black Chamber" uno squarcio di danze tribali per burattini che mette a bollire sostanze chimiche sul fondale. "Each One Teach One" non lascia un solo secondo al vuoto: una materia fonica spolpata fino all'osso e poi guarnita con mescolanze di droni pianistici, chitarre ruvide ed elettroniche strabordanti, mantra psichedelici intrecciati con detriti di riff assassini, nastri al contrario, loop, voci in talk-over, ipnosi ritmiche. Il tutto, ostinatamente allucinante.

Li temo. Non ho ancora capito bene quand'è il momento giusto (c'è?) per poterli ascoltare. Della loro discografia ho soltanto questo di originale, e dopo 4 anni che lo ascolto l'ho capito l'altro ieri. Di recente ho battuto la testa.

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