Il romanzo del quale vi voglio parlare oggi non è proprio una passeggiatina in centro in una tiepida domenica pomeriggio di primavera; al contrario si avvicina ad una scarpinata in quota. Lo consiglio pertanto a chi può dedicare del tempo per una lettura costante e a chi è affascinato da una terra incastrata tra oriente ed occidente, con tutti i problemi che ne derivano.
Apro una parentesi e torno indietro di una decina d'anni quando alcuni geniali politici italiani ed europei a gran voce cercavano di sponsorizzare l'annessione all'Unione Europea della Turchia: crocevia millenario di diverse culture, ponte tra due continenti, paese densamente popolato e complesso con storici problemi di etnia, religione e posto in una parte di mondo che dal punto di vista geopolitico è a dir poco bollente (confini con Armenia, Siria, Iran ed Iraq).

Di Orhan Pamuk (Premio Nobel nel 2006 che si è dovuto rifugiare all'estero) ho letto questo inverno due libri in rapida sequenza: "Neve", ambientato nella gelida città di confine Kars, ed appunto "Il mio nome è Rosso". Sul web è possibile leggere delle recensioni nelle quali questo romanzo viene accostato a "Il Nome della Rosa" di Umberto Eco. La trovo una similitudine forzata in quanto gli unici punti di contatto constano nell'ambientazione storica e nella ricerca di un assassino. Ma se il capolavoro di Eco gode di scorrevolezza e suspense queste caratteristiche sono completamente assenti nell'opera di Pamuk.

"Il mio nome è Rosso" è un'alta dissertazione sull'arte e sulla crescente ed ineludibile "contaminazione" degli infedeli occidentali. La trama si svolge alla fine del sedicesimo secolo (1591) quando i rapporti commerciali tra Istanbul e Venezia erano particolarmente stretti. Il modo di dipingere realistico dei Maestri veneziani creerà scompiglio, odio e contestuale ammirazione tra i miniaturisti turchi rompendo l'equilibrio secolare di una tradizione immutabile. La commissione da parte del Sultano Murat III di un libro che commemori il millenario dell'Egira con ritratti che utilizzino la prospettiva europea genererà dissidi silenziosi all'interno dei miniaturisti. Inevitabile lo spargimento di sangue.

Pamuk ci racconta la storia con 59 capitoli in prima persona nei quali prendono la parola non solo tutti i personaggi principali, ma perfino oggetti, colori (meravigliosi risultano essere le pagine in cui parlano il colore rosso e la moneta) e alcuni disegni. Con brevi flashback il lettore rivive la stessa scena da un punto di vista diverso. La trama scorre vischiosa come lava da un dolce crinale e questa fastidiosa lentezza viene compensata dalla profondità dei personaggi che Pamuk ci offre. Le voci si intrecciano come in un coro alquanto complesso: fosse musica sarebbe un gruppo con almeno otto strumentisti con brani pieni di variazioni e senza uno stile univoco.

L'autore ha fatto un lavoro elitario, eccezionale ed originale che merita tutta l'ammirazione del lettore di questo infinito e complesso mosaico. Nell'opera Pamuk ha rievocato con realismo e forza un periodo storico sconosciuto alla maggior parte di noi occidentali e ha espresso con coraggio la sua visione dell'arte come il risultato dell'unione di culture diverse nel rispetto reciproco. Riprendendo parzialmente il titolo è grazie alla mescolanza di due colori che nasce un terzo.

Non è una lettura facile, ma io credo che sia un libro stimolante, originale e che, pertanto, ne valga la pena.  

 

Carico i commenti... con calma