A Ornette Coleman venne l'idea di togliere le manette al jazz in modo definitivo.
Lo fece in modo splendido, raccogliendo ciò che aveva sentito prima, mischiando un po' di fantastiche idee musicali, con l'aiuto del suo fedele Robin, il sassofono. Grazie, Ornette.
E così il pubblico del 1961 rimase impressionato, sconcertato: il nuovo disco del double quartet era un'improvvisazione di quasi 40 minuti, stracolma di assoli e in fondo, un po' di caos sonoro - assurdo!
Ma chi gliel'ha fatto fare?
I veri geni non vengono riconosciuti come tali durante il periodo in cui sfornano i loro capolavori: basti pensare al Dylan elettrico del '65, al Miles di Bitches Brew, ai Velvet dei primi due dischi, per fare alcuni esempi.
Il 21 dicembre del '60, un tecnico, Tom Dowd, nello studio dell'Atlantic Records, lasciò correre le bobine senza un preciso limite di tempo: dall'altra parte della stanza, il double quartet viaggiava su un manto di libertà: finalmente la creatura era nata.
Alla fine, fra le mani l'Atlantic si ritrovò un quadro di disco.
Pennellate confuse, ma limpide e chiare allo stesso tempo.
Ornette inventò un linguaggio nuovo nel jazz, e questo disco ne è la prova.
Dipinse, assieme agli altri musicisti (c'era anche Eric Dolphy, mica fuffa), le emozioni, imprimendole nei magneti di quei famosi tape-recorder, nella freschezza del vinile che fu la causa dello sconcerto massimo degli ascoltatori di jazz al tempo. Ma avrebbero dovuto aspettarselo, da uno come Ornette.
Poche erano le sezioni scritte prima di entrare in studio, nessuna prova con il gruppo, quello che possiamo goderci è l'unico e solo take dell'opera. Ed è perfetto.
Mai titolo fu più azzecato.
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