Una cosa è certa: ciò che siamo dopo aver attraversato un ponte è inevitabilmente diverso da ciò che eravamo prima di attraversarlo. I ponti sono dovunque e, volenti o nolenti, gli esseri umani ci si avventurano (sia individualmente che collettivamente), ne sono irresistibilmente affascinati.

Ma cosa accade su un ponte? Là, dove tutto è in divenire e niente è cristallizzato. Difficile da dire, ma una seconda cosa è altrettanto certa: cercare di scoprirlo è la cosa più interessante di tutte.

Pensiamo per esempio alla concezione del Tempo nella civiltà Occidentale: a.C. e d.C. per scandire il continuum. Il raccordo sono gli anni della vita di Cristo, il Salvatore, il figlio di Dio, il simbolo del passaggio tra il prima e il dopo, l'anello di congiunzione (per i credenti) tra il Divino e l'Uomo, il ponte.

Pensiamo alla produzione poetica di Mandel'štam.

Le sue prime liriche videro la luce nel primo decennio del '900, un periodo in cui la fitta nebbia del Simbolismo russo (con le sinuose romanze zigane di Blok e il misticismo iridescente di Belyj in testa) cominciava ad essere percepita dal popolo e dall' intelligencija come un inutile trastullo, un gioco pretenzioso e superato, un vacuo fluttuar di penna incapace ormai di nutrire il cuore e lo spirito delle nuove generazioni sedotte dalla narrazione marxista, da una letteratura che trattava temi più consonanti alle loro vite, da una poesia dai contorni più netti e chiari.

Mandel'štam aderì all'Acmeismo, una corrente letteraria che si proponeva come antidoto agli stilemi simbolisti e che si attribuiva, attraverso la cura formale dei versi, la missione di cesellare immagini cristalline e sonanti che risuonassero immediatamente nella coscienza del lettore.

Il nostro (insieme all'Achmatova e a Gumilëv) ne divenne uno dei membri più rappresentativi: piccoli manufatti dal gusto classico e dalla precisione geometrica in cui il Mandel'štam-uomo veniva letteralmente sopraffatto dal Mandel'štam-poeta; veri e propri marmi greci che si stagliavano nello spazio con espressiva impersonalità.

E poi più nulla. Per cinque anni (dal '25 al '30) un silenzio innaturale. L'ispirazione disseccata, le immagini esaurite.

E poi d'improvviso ancora tutto. La diga cede di schianto e la poesia riprende a fluire ininterrottamente, a ondate. E come è diversa ora! Liriche dolorose, personali fino all'eccesso, liriche grondanti sangue, liriche come ferite in cui l'autore rigira continuamente il suo affilato scalpello da scultore. La statua antica è andata in pezzi e al suo posto rimane la carne a brandelli di un martire, di un poeta che sente su di sé tutta la sofferenza di quella parte della popolozione dilaniata dalla guerra civile prima e soffocata dal giogo stalinista poi.

Ma cos'era successo in quei cinque anni di ritirata dalla poesia? È presto detto: Mandel'štam si stava dando alla prosa, o meglio, stava attraversando un ponte. "Il Rumore del Tempo" (dal titolo del primo dei quattro scritti raccolti nel libro) cerca di far luce proprio su quel periodo.

Passo dopo passo seguiamo il poeta che, mento abbassato e mani in tasca, si allontana da una riva e ancora non scorge l'altra. Lo sguardo è altrove. L'attenzione e la postura sono quelle di una persona che sta ripiegando in sé stessa, che riconsidera e soppesa il suo percorso (umano prima ancora che artistico) ponendosi una sola, semplice domanda: "Cosa è accaduto?".

Mandel'štam in queste prose ci parla delle vie, delle piazze, delle chiese, dellle sfarzose parate militari della Pietroburgo pre-rivoluzionaria; ci accoglie nelle mura della sua famiglia d'origine mostrandocene le idiosincrasìe congenite, le bizzarrìe inveterate e il marasma multiforme e multistrato del "caos giudaico" che la caratterizza; ci presenta strambi personaggi che paiono usciti dalla penna di Gogol' e che invece sono gli incontri decisivi della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua fuga in Crimea.

Un autobiografismo incastonato nel rumore stesso di un'epoca e che, grazie ad esso, acquista un senso e un peso specifico. L'attesa spasmodica, gli stravolgimenti culturali, le curiosità di costume, le personalità incandescenti di quegli anni fanno da sottofondo, complemento e preludio alla maturità dell'autore.

Se tutto ciò può in qualche modo ricordare la gigantesca ombra della cattedrale edificata da Proust, commetteremmo un errore pensandolo: laddove il francese era sinfonico nell'incedere, fluido nella forma e ricercatore nel metodo, il russo procede a balzi improvvisi, abolisce ogni pretesa romanzesca e predilige associazioni mentali fulminee e fulminanti polverizzate dai rintocchi della Storia che coprono incessantemente il ticchettìo della sua vita.

In più Mandel'štam non cerca di districare nessun personalissimo nodo gordiano, anzi: "La mia memoria è nemica di tutto ciò che è personale. La mia memoria è spinta dall'ostilità e il suo lavorìo rimuove il passato, non lo riproduce". I suoni, gli odori, i colori e le persone paiono scrostarsi da piccoli grumi di ricordi sparpagliati qua e là. Vere e proprie reviviscenze che colpiscono per la loro vividezza e che emergono per un attimo dal fluire del Tempo per poi esserene sommerse subito dopo.

Non mitizza il passato, non fa dell'agiografìa spiccia. È un libro controllatissimo nel contenuto (che tratta solo di cose toccate con mano dalla vita di Mandel'štam che non si avventura mai in digressioni ad ampio respiro) quanto spezzettato nella forma (con i periodi e le innumerevoli similitudi che si inerpicano sulle dorsali della memoria saltellando a zig-zag come capre di montagna).

Un libro la cui cifra stilistica risiede nella discontinuità e nelle annotazioni accessorie che si affastellano lungo le pagine del vissuto: "Distruggete i manoscritti, ma conservate quello che avete tracciato a margine, per noia, per inettitudine, e come in sogno. Queste creazioni secondarie e involontarie non andranno perdute".

Mandel'štam cerca di farsi largo in un evidente paradosso: rifugge ogni spinta individualistica, ma, per restituire la sua verità riguardo al clima di quegli anni, deve necessariamente scavare in continuazione dentro di sé. Una specie di apparecchio registrante dotato di emozioni che cerca di offrire al lettore l'intreccio continuo tra i fatti (nudi e crudi) e come sono stati interpretati e interiorizzati.

La nitidezza del dettaglio di vita vissuta e lo sforzo continuamente teso alla sua spersonalizzazione; il tramestìo dei sensi eccitati di un poeta e l'esigenza, profondamente sentita, di non lasciarsene travolgere. Queste piccole prose sono lo spartiacque, l'anello di congiunzione, il ponte ideale che collega i due periodi così differenti della poesia di Mandel'štam.

Potrei chiudere parlando della sua morte. Avvenne in un campo di transito poco tempo dopo il suo ultimo arresto, in una stazione di passaggio di un viaggio che avrebbe dovuto condurlo a quei famigerati territori della Kolyma scoperchiati dai racconti di Šalamov. Un altro raccordo, un altro ponte.

Ma, in fondo, cosa non è un ponte? La vita stessa lo è: il ponte supremo sospeso sull'incomprensibile e che unisce due rive di cui non sappiamo nulla.


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