I Pain of Salvation hanno pubblicato ormai più di 15 anni fa e più alcuni degli album più memorabili del nuovo millennio (e, a parere di chi scrive, della storia universale). The Perfect Element Part I e Remedy Lane sono una manna dal cielo per chiunque disponga di udito, per una ragione o per l'altra: un perfetto connubio di emotività, tecnica, poesia e chi più ne ha più ne metta. I fan hanno iniziato a dividersi con Be, album più sperimentale, dal concept semplicemente avanguardistico... ma soprattutto col seguente Scarsick, che si discostava palesemente dal sound delle origini, focalizzandosi su elementi rap, alternative e addirittura disco (sebbene, sempre a parere di chi scrive, si tratti di un album almeno per metà eccellente). Poi la parentesi vintage-hard rock con i due Road Salt, con cui gli svedesi si sono saputi riguadagnare la fiducia di alcuni e perdere definitivamente alcuni altri.

Tutto potevamo aspettarci in questo 2017, a 6 anni di distanza da Road Salt Two, fuorché un ritorno al sound pesante e tecnico degli anni d'oro. Naturalmente non si tratta di un ripescaggio sterile: complice la formazione completamente diversa da qualla di allora – eccetto per il divino Daniel Gildenlöw, mente del gruppo da sempre presente – e il mixaggio, il concetto di pesantezza ha un colore del tutto diverso da quello dei classici della band: Daniel Bergstrand (già dietro al mixer per alcune delle band più cattive del nord) dona alle intricate ritmiche dell'album un potere di penetrazione che a tratti sembra quasi sfociare nel djent, con tanto di chitarrozzi a 7 corde usate per gran parte del tempo. Al basso abbiamo (sempre non a caso, si direbbe), Gustaf Hielm, che suonò già nei Pain of Salvation delle origini, ma poi entrò anche nei Meshuggah per alcuni anni. Ultimo elemento già noto della formazione è il francese Léo Margarit alla batteria, il cui estro viene espresso in questo album forse più di quanto i due Road Salt gli avessero permesso di fare, quando ancora era una new-entry. In questo caso quest'ultimo ruolo è coperto da Daniel Karlsson alle tastiere e da Ragnar Zolberg alla chitarra, quest'ultimo spesso (ma non quanto molti dello "zoccolo duro" temevano) impegnato anche alla voce. Eccellenti sono le performance di ogni singolo membro citato in questo paragrafo. Certo, lo stile è diverso da quello del passato: più vicino alle vecchie glorie, ma ancora (fortunatamente, per chi ama sempre e comunque l'evoluzione in una band) irriducibile ad esso: scompaiono gli acuti allucinanti e le sezioni strumentali estese, le frequenti armonie vocali sono ridimensionate, ma in compenso tornano il lato più graffiante (quasi growl in certi punti) di Daniel, il suo rappato aggressivo, i frequenti polititmi, i passaggi recitati e via dicendo. Rispetto alle recenti uscite scompare quasi totalmente la vena vintage, la voce è molto più naturale, il songwriting più esteso e destrutturato, i suoni più diretti e aggressivi, le canzoni tendenzialmente più cupe e personali, quasi mai leggere e spensierate, ma nemmeno mai appesantite da un pathos eccessivo. E la cosa interessante è che ogni assenza rispetto al passato risulta evidente solo in seguito a un processo di razionalizzazione a posteriori: ossia, sul momento dell'ascolto nulla pare poter andare meglio, tutto è al suo posto, siamo innanzi ai Pain of Salvation più puri.

In the Passing Light of Day narra dell'esperienza del cantante/chitarrista/eccetera Daniel Gildenlöw, che ha rischiato di morire in seguito a un'infezione gravissima di batteri mangia-carne detta "fascite necrotizzante" (cercate su google immagini per chiarissime spiegazioni visive). Inutile tentare di spiegare quanto una simile sventura possa colpire un uomo, a maggior ragione una personalità sensibile come quella di Daniel, che più volte ha già dimostrato grande capacità di estetizzazione delle proprie esperienze personali (gran parte di Remedy Lane è autobiografico). Il risultato è un album tematicamente costernante e liricamente toccante a livelli elevatissimi: un altro esempio di come un vissuto personale possa essere elevato a qualcosa capace di raggiungere l'universalità. Non si tratta tuttavia di un viaggio monotematico o piatto a livello musicale/lirico, anzi: i brani sono assolutamente mutevoli per stile e sonorità. Dalla prorompente Reasons alla delicata ballad sessantiana Silent Gold (unico vero residuo della vena vintage delle recenti uscite), dalla variegata titletrack all'indefinibile If This Is The End. Vero è però che la prima metà dell'album è più diretta, mentre la seconda raggiunge gli apici del pathos per ovvie ragioni concettuali ed è tendenzialmente un viaggio più intimo e sofferente. Ma il tutto è legato insieme in maniera assolutamente convincente, con un giusto bilanciamento di tensioni e distensioni sonore nella tracklist. Di conseguenza, se l'intricata opener On a Tuesday sarà in grado di soddisfare appieno i fan legati all'etichetta "progressive metal", più o meno indebitamente appioppata da tempo immemore alla band, l'intrigante The Taming of a Beast riuscirà ad accaparrarsi nuovi fan e la movimentata Full Throttle Tribe saprà saziare il palato di chi si era perso per strada dopo l'abbandono dell'approccio più tecnico. Insomma, ce n'è per tutti i palati e, cosa più importante, in ogni caso si tratta di musica che rende conto di una band ormai completamente matura, ma non per questo avariata, consapevole, ma non per questo un po' incosciente, capace di rimettersi in discussione e riscoprire una parte di sé che aveva dimenticato, per rileggerla alla luce della nuova formazione, delle nuove esperienze, dei nuovi tempi. Un gruppo che si riconferma essere mai ripetitivo, sempre al passo coi tempi, ma anche sempre al di fuori del tempo stesso, come il Dio Creatore dei filosofi medievali. Poche band sono riuscite a creare qualcosa di simile a 20 anni dal loro debutto discografico. E quel "poche" è lì giusto per non peccare di saccenza.

Voto: 9,5 = *****

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