“I Pain of Salvation mi fanno schifo…

…anzi, li amo”.

Questo il primo pensiero che mi è balzato in mente mentre mi accingevo all’ascolto del nuovisismo “Falling Home”; un amore/odio che mi ha permesso di mettermi tranquillo e godermi il disco un pò prevenuto, lo ammetto, ma molto speranzoso.

 

Taglio la testa al toro e dico subito che le mie speranze, invero abbastanza flebili, sono state immediatamente deluse.

 

Ho amato questo gruppo dagli esordi definendoli geniali, innovativi, fantasiosi e loro mi hanno sempre ripagato con lavori magistrali e talvolta immensi (su tutti “Remedy Lane” e “Be”, i loro capolavori).

I primi scricchiolii si avvertirono con “Scarsick (The Perfect Element Pt.II)”, comunque ancora ascoltabile nonostante fosse qualitativamente distante anni luce dal primo “The Perfect Element”, poi il tracollo con i due disastrosi capitoli di “Road Salt”, dove è stata chiara la sterzata verso un rock/blues senza senso.

 

Questo “Falling Home” non è altro che un disco acustico registrato in presa diretta in studio dove i nostri, ormai devastati nella formazione avendo perso tutti gli elementi originari (rimane il mainman Gildenlow), rivisitano pezzi dell’ultima era e un paio più datati perdendo completamente il lume della ragione e infilandoci influenze di ogni tipo, dal country allo shuffle, al blues al tango; non che ci sia niente di male, si intende, ma la domanda che mi sorge è semplice e non banale: “a che pro”?

 

Non bastava forse il magnifico live acustico “12:5” del 2004 per rendere un omaggio unplugged al passato?

(un disco che fotografava un momento magico della band, con riproposizioni incredibili di pezzi stupendi, tra tutti la versione di “Ashes” suonata in maggiore).

 

Non era forse necessaria una ripartenza per convincere tutti che il padre/padrone dei POS non si è ancora scavato la fossa (artistica) ma ha cartucce da sparare?

 

Veramente questo pastrocchio sonoro (che ha come unico pregio quello di avere una tracklist con le canzoni migliori degli ultimi 3 dischi e che si salva in parte solo per l’elevatissima qualità della composizione) dovrebbe far ricredere chi è rimasto deluso e scottato dalla virata stilistica di un gruppo che è sempre stato ritenuto tra i top del progressive “intelligente” e mai banale?

 

Daniel Gildenlow è un geniaccio e lo sa benissimo e mi piange il cuore sentire come si pavoneggi cantando 4 stili diversi in 2 secondi di canzone o come riesca a dare una versione scontata quanto un cappotto a Ferragosto di “Holy Diver” di Dio, con voce da crooner e poco rispetto.

E a non dire di “Perfect Day” di Lou Reed, bellissima come sempre ma in una versione che non suonerei in spiaggia con una chitarra classica scordata.

 

Fa ben sperare in qualche modo l’unico inedito, la title track posta in chiusura, molto (troppo?) intricata e che potrebbe essere un’anteprima del nuovo corso al quale sembrerebbe voler ricorrere Gildenlow per il futuro, forse resosi conto del disastro combinato con le ultime fatiche.

E da li ripartirei, dando una bella riascoltata ai primi dischi e prendendo un bel respiro, prima di continuare nel manierismo più sfrenato e nella voglia di “mostrare” quello che non ha bisogno di mostrare (non ultimo, eliminerei anche quel fastidioso falsetto che da troppo tempo lo accompagna).

 

In sostanza un disco con ottime canzoni, arrangiamenti ridondanti ed esagerati e zero (dico zero!) senso; un modo, a mio avviso, di tappare un buco temporale in attesa di un nuovo lavoro che potrebbe rilanciarli come, spero non sia mai, affossarli completamente.

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