Impossibile sbagliarsi.

Dal finestrino del treno si staglia rossogrigioarancione l’irrazionale bailamme dell’agglomerato urbano, come una Montmartre di portuali e di pesciaioli. Per me Genova, che non sono ormai un turista ma di certo pur sempre un foresto, è quel marasma piscioso barocco salato di salite e di ciottolati, la terra di Luzzati e dei suoi scarabocchi, di baccalà fritto e di confetterie ottocentesche coi loro specchi e le loro lumiere.

Proprio dietro ai truogoli di Santa Brigida, in quella fetta colorata e scalcagnata di città che è un po’ Africa e un po’ Sudamerica, ho preso una stanzuccia all’ultimo piano e dall’alto in basso affacciato mi sento Paolo Conte, con le sue vaghe lontananze, coi suoi mocambi, con le sue verdimilonghe.

Pezzettini di mondo, come coriandoli nella testa, boxeur tutti ventagli e silenzi, uomini grossi come alberi. Cartoline sbiadite e scritte dietro in corsivo.

La cipolla della città si sfoglia, ad avere occhi per guardare: edifici trecenteschi, a righe come tante lucardine di marmo, con gli archi riadattati a finestre, stucchi e affreschi un po’ stonacati seicenteschi, campanili appuntiti con orologi di fine ottocento incastonati alla bell’e meglio, gabbiani immobili, come di pietra, solo in attesa di qualcuno che, incauto, si lasci portar via la focaccia dalle mani, scritte fugaci o adesivi scrostati e riappiccicati di collettivi studenteschi, bancarelle smaltate con libri che si lasciano comprare senza alcuna resistenza, fontanelle e angoli.

Ah, maledetta perfezione, inutile quadratura del cerchio, prevedibile simmetria. Ah, benedetta imperfezione, inincasellabile asimmetria, indecifrabile quasi: sono le parole, accostate così, a far le veci delle cose coi loro strati di cipolle.

Tuo zio ti aspetta, raggiungilo

quando ti guarda decifralo:

è tutto cinema, cinema, cinema

(24 luglio 2022, tra Via di Prè e Piazza Sant’Elena, Genova.)

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