L’acqua era tiepida ed era sera, una di quelle sere in cui il colore del cielo cambia tonalità a tutte le cose, rendendole meno pesanti. Una sera come tante, a dire il vero, che non avrebbe avuto proprio niente di speciale, non fosse stato per quello che mi era appena capitato. Per la visione che avevo avuto.

Non ricordo se fosse estate o inverno: a Los Angeles fa sempre caldo. Quella sera l’acqua era tiepida. Era il ’79 e mi trovavo in America per scappare dal trionfo di Pensiero stupendo, in cerca di solitudine, di tranquillità. Per questo avevo scelto lo Chateau Marmont, un albergo di Hollywood nato negli anni Trenta e frequentato dagli attori, una vera istituzione, che avevo sempre amato: trovavo che possedesse un’energia particolare, un qualcosa di magico. Certo non pensavo fino a quel punto.

Ero sola in piscina, circondata da un silenzio irreale, quasi artefatto. In giro non c’era nessuno, perché gli attori che frequentavano l’albergo dovevano ancora rientrare dai loro set. Adoravo la pace di quel momento solo mio. Mi ero immersa al tramonto e avevo nuotato a lungo, fondendomi con l’acqua, il mio elemento, così leggero, così libero.

Fu allora che ebbi il flash, dal nulla.

Una visione breve, brevissima, ma che allora mi sembrò infinita come quando stai per morire, che pare ti scorra davanti il film della tua vita.

Solo che io non stavo morendo.

Io stavo nascendo.

Sono passati molti anni da allora, ma ricordo tutto così vividamente, che a volte mi sembra di essere ancora immersa in quella visione: io che esco dall’utero di mia madre.

La prima persona che vedo, quella con cui incrocio il primo sguardo della vita, è nonna Maria, la mamma di mio padre, la donna che mi ha allevato e mi ha insegnato a essere libera.

Mi sorride.

Mi accoglie.

Nonna.

Su un lato della stanza mi pare di vedere altre persone.

Quattro volti, come disegnati sulle pareti, ma non saprei riconoscerli.

Nonna mi prende in braccio. È la prima a farlo, e io in quel momento sto bene. Sto così bene. Una sensazione di calore mi pervade il corpo. Mi sento al sicuro.

E in quel momento la visione finisce.

Era stato tutto così reale, tutto così incredibilmente tangibile.

Allora presi il telefono di fianco alla piscina e la chiamai.

“Pronto? Mamma? Sono io, Nicoletta. Lo so che non ci sentiamo da tanto, ma ascolta: devo chiederti una cosa”. (Prologo)

Nicoletta Strambelli, nata a Venezia nel 1948, diventa la prima icona di libertà e trasgressione dagli anni ’60 grazie a un’educazione ‘libertaria’ ricevuta dai nonni paterni, di mentalità anticonformista per l’epoca.

Affidata a loro dalla madre, la futura cantante nasce con un carattere insofferente alle regole e grazie spesso all’azione ‘protettrice’ della nonna che diventa una giovane ‘sprezzante’ dei principi (morali) e delle convenzioni dell’epoca.

In un libro che racconta la propria vita dopo 50 anni di carriera (uscito nel 2017) l’ex ‘Ragazza del Piper’ (soprannome dato dalla stessa persona che l’aveva lanciata sulla scena) presenta con nonchalance e leggerezza un’esistenza intensa, a volte estrema, ma mai drammatica, da un’infanzia irrequieta e ‘ribelle’ a una vita adulta di passioni e avventure, ma anche tanta serietà e dedizione nella vita artistica, da diventare una vera e propria icona, da non sfigurare con grandi personalità simili della musica internazionale del passato.

Scorrendo le esperienze di infanzia della cantante degno di nota è avere assistito il primo giorno di scuola elementare (pubblica, dopo essere scappata da una di suore) all’insegnante che apriva le lezioni del giorno non con la preghiera, come di costume nell’Italia cattolica degli anni ’50, ma cantando ‘La Marsigliese’ (l’inno nazionale francese, scritto durante la Rivoluzione, ndr/nota di recensore), venendo conquistata da lei.

In controtendenza alla mentalità chiusa e bigotta della società del momento, Nicoletta ragazza che confessa ai nonni di avere fatto l’amore, trovandolo meraviglioso e di tornare subito dopo pranzo a farlo e l’assunzione della prima pillola contraccettiva in Italia (o essere lei una delle prime a farlo), dietro obbligo della nonna, quando in Italia queste ancora non c’erano.

E negli stessi anni l’incontro con il poeta americano Ezra Pound, in compagnia di una donna, un giorno di assenza ingiustificata da scuola.

L’esordio della giovane ragazza nel mondo della musica passa dalla sua presenza costante in un locale da ballo di recente apertura a Roma, il ‘Piper’, grazie a due presentatori della radio (Rai), Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, i quali, notandola con pochi altri del pubblico scatenata nel ballo, la segnalano al proprietario del locale e di una piccola casa discografica (un’etichetta) Alberigo Crocetta.

A sua volta Crocetta, dopo averla lanciata sul palco, le affianca una band di supporto (di inglesi, i Cyan Three) e durante una spaghettata dopo l’orario di chiusura del locale crea il nome d’arte ‘Patty Pravo’ di cui ‘Pravo’ dalle ‘anime prave’ dell’ ‘Inferno’ di Dante (emerso in una conversazione su ricordi di scuola) e ‘Patty’ per alcune ragazze inglesi che frequentavano il locale con questo nome ed essere lo stesso in voga in Inghilterra.

Di qui al primo successo il passo è breve: scelta da lei stessa una canzone straniera da incidere, rifiutando molte proposte della casa discografica, e l’autore del testo, Gianni Boncompagni, Patty si presenta con un brano ‘generazionale’, ‘Ragazzo triste’ (su un successo di un duo americano, Sonny & Cher – quella di ‘Believe’ del 1999, ndr).

Da qui fino a ‘Pensiero stupendo’ del 1978, una carriera in crescita e con poche battute d’arresto, artistiche e commerciali; tra i brani storici da lei raccontati: ‘Qui e là’ (un inno sulla libertà, fatto proprio dai giovani del periodo), ‘La bambola’ (che non la convinceva per il testo secondo lei sessista, e primo successo internazionale), ‘Pazza idea’ (dalla storia travagliata, diventato hit dell’Estate del 1973 e che ne ha consacrato la fama in tutto il mondo, grazie anche all’incisione di versioni in lingua straniera) e ‘Pensiero stupendo’ (scritta da Ivano Fossati, una storia di menage à trois).

Nella stessa fase di grande affermazione, non solo musicale, gli incontri e le amicizie con nomi importanti della scena italiana e internazionale (tra cui Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones, Jimi Hendrix e Roger Waters dei Pink Floyd); e fra gli amori, con tanto di matrimoni e divorzi, Gordon Faggeter (il batterista dei Cyan Three), Riccardo Fogli (il cantante e bassista dei Pooh) e due chitarristi americani in un rapporto a tre, Paul Jefferey e Paul Martinez.

Escluso un servizio di nudo per la rivista ‘Playboy’, una Patty interessante la si trova negli anni’90 con l’arresto per falsa accusa di droga nel 1992, un viaggio rigenerante per i paesi della Via della Seta concluso con un concerto all’ambasciata italiana di Pechino, l’esplosione della popolarità in Cina (prima artista straniera in quel paese) e da quell’esperienza la realizzazione dell’album ‘Ideogrammi’ (1994, ndr) con il coinvolgimento di artisti locali.

A chiudere con questa Patty, l’incontro con Vasco Rossi e Gaetano Curreri degli Stadio per il provino di ‘…e dimmi che non vuoi morire’ (portato al Festival di Sanremo del 1997), un brano ‘non scritto per lei, ma su di lei’.

Un viaggio nella vita di una ‘trasgressiva’, che vale la pena di fare.

Ero a Madrid per un mio show televisivo con l’orchestra. Quella sera non avevo avvertito nulla di strano nell’aria. Nessuna vibrazione negativa. Sembrava tutto come sempre. E invece.

Ero dietro le quinte, molto concentrata. Lo show che stavo per fare era importante. A un certo punto, quando ormai dovevo entrare in scena, qualcuno mi batté sulla spalla. Mi girai infastidita e mi trovai davanti un tizio dell’Rca. Uno del quale non ricordo più il nome.

- Signora… - borbottò. - Mi scusi… Abbiamo ricevuto una telefonata. Dobbiamo comunicarle che sua nonna è mancata. Mi dispiace.

Lo disse così, poi se ne andò, proprio mentre mi stavano presentando.

Allora entrai sul palco, e il concerto diventò una preghiera.

Più tardi scoprii che nonna era morta nel sonno, di vecchiaia, nel suo letto, e fui più sollevata, perché sapevo che era quello che aveva sempre voluto.

Affittai un aereo per Venezia, dove insieme a Linda Wolf e Paolo Olmi, a quel tempo il mio direttore d’orchestra, assistetti alla messa funebre dal fondo della chiesa. Poi salii su una delle lance che ci avrebbero portato all’isola di San Michele, il cimitero dei veneziani. Non su quella di famiglia. Un’altra. Per questo potei osservare da un punto di vista privilegiato quello che accadde: dalla lancia che trasportava il feretro d’un tratto si videro volare ovunque le corone di fiori, come se qualcuno le stesse gettando via.

Poi le tendine cominciarono a muoversi follemente e udimmo una sonora risata, la risata di nonna. Ancora oggi Paolo sbianca, se glielo ricordo.

Nonna non mi ha più lasciato. Ogni tanto mi fa anche gli scherzi, mi sposta le cose, ruba il cappello a un amico, che da Roma se lo ritrova a casa sua a Verona. Una volta vidi il mio segretario correre come un pazzo giù per le scale che portavano al guardaroba e uscire urlando dalla porta d’ingresso. Quando salii per capire cos’era successo trovai gli armadi aperti con tutta la roba a terra.

Ma io sono contenta di avere nonna vicina, lei che è stata la prima a prendermi in braccio quando sono nata, la prima ad accogliermi.

Me lo ha confermato mia madre, la sera che la chiamai dall’America dopo la visione che avevo avuto in piscina: io che uscivo dall’utero di mia madre.

- Pronto? Mamma?

- Nicoletta?

- Sì, lo so che non ci sentiamo da tanto, ma ascolta: devo chiederti una cosa.

Poi le dissi tutto quanto, tutto quello che avevo appena “visto”, le parole come un fiume in piena, cercando di non tralasciare niente. Lei mi ascoltò senza dire nulla, molto attentamente.

- Ma è vero che è stata lei, la prima a prendermi in braccio? - chiesi infine.

- Sì, - rispose. - È vero. È andata così.

E mi raccontò che il mio era stato un parto difficile: le persone come me, che nella vita poi si rivelano particolari, fanno partorire male, con sofferenza. Alla fine del travaglio mamma era stremata, e così nonna mi aveva preso in braccio al posto suo. Perché lei aveva una sensibilità superiore. Probabilmente, dentro di sé, già sapeva quello che sarebbe accaduto.

Devo a lei la mia forza d’animo. Devo a lei la capacità di vedere oltre le regole. Devo a lei, soprattutto, la passione per la musica e quella, anche più forte, per la libertà.

Mi manca molto, ma non ho bisogno di un aldilà per rivederla.

Se chiudo gli occhi siamo ancora insieme, nella casa di Dorsoduro dove tutto è cominciato, o lungo la passeggiata verso il Ponte della Libertà.

- Sai - le dico ora. - L’anno prossimo vorrei tornare nel deserto. Un viaggio più lungo, estremo, insieme a quel pazzo di Max Calderan.

Lei ride. - Ma ce la farai?

- Ma certo che ce la faccio! - protesto io.

- Allora raccontami i tuoi piani, dài.

- Va bene, nonna. Adesso ti racconto.’ (Epilogo)

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