Nel 2007 Paul Bley entra in studio a New York per regalarci l'ultimo di un'infinita serie di lavori discografici (parliamo di oltre 120 dischi in una sessantina d'anni), ancora una volta in piano solo.
Quando mi chiedo cosa abbia spinto Bley a registrare e pubblicare musica in maniera così compulsiva per tutti quegli anni, nei contesti e con le formazioni più disparate, trovo la risposta proprio in quest'ultimo disco. La troverete anche voi nei primissimi dieci secondi del brano iniziale: una manciata di note buttate lì, come uno straccio sporco, giusto per darci il benvenuto. Molte improvvisazioni di Bley iniziano così: è una sorta di big bang, una piccola esplosione di entropia pura sul pianoforte da cui ogni cosa trae linfa e fondamento, perché d'altronde da qualche parte si dovrà pur iniziare.
E infatti subito dopo troviamo il Bley più lirico e lancinante, che con un paio di note ben affilate ci prende e non ci molla più. Così ha inizio un viaggio di oltre mezz'ora dentro alla mente creativa e geniale di uno dei più pianisti jazz di sempre (il più grande?), un viaggio fatto di armonie che si reggono in piedi su due o tre note e che trascolorano continuamente, di slanci melodici che si trascianano dietro la mano sinistra con tutto il guinzaglio, di citazioni e strutture prese in prestito qua e là (appare spesso lo scheletro di All the Things You Are) con cui giochicchia per un po' e poi si stufa, di grande ironia e di intense declamazioni.
Nell'approcciarsi ai piano solo di Bley bisogna essere pronti un po' a tutto, e bisogna soprattutto accettare di annoiarsi e a volte di perdersi: perché Bley accetta di suonare soltanto ciò che è puro, ciò che può emergere soltanto nel vero qui e ora dell'improvvisazione, e perciò è costretto a rinunciare a ogni paracadute e a ogni soluzione prefabbricata. Bisogna aspettarlo, ogni tanto, aspettare che da un momento di travagliata ricerca lui riesca a trovare quell'intuizione, quel germoglio che soltanto la maestria e la cura di un grande possono portare alla fioritura.
Il secondo e ultimo brano è una libera esplorazione di uno dei brani che il nostro suonava più spesso, ovvero Pent Up House di Sonny Rollins, un brevissimo tema che registrazione dopo registrazione Bley disidrata sempre di più (sono passati vent'anni da quella versione deliziosa e decisamente più ortodossa in duo con Chet Baker in Diane). Rimane solo lo scheletro armonico e una melodia sputacchiata che Bley si diverte a prendere in giro, eppure è una versione che ha un che di malinconico e di crepuscolare (binomio che peraltro ben riassume lo stile e l'estetica di Bley).
Per concludere, si tratta senz'altro dell'ultimo disco che consiglierei a chi vuole accostarsi a un'artista complesso e caleidoscopico come Paul Bley (per il piano solo segnalo invece il capolavoro Open, to Love del 1972, di un'intensità davvero sconvolgente); è semplicemente il saluto timido e sornione di un gigante che ha lasciato un segno così indelebile sull'arte del piano solo e sulle generazioni successive di pianisti (per informazioni chiedere a Keith Jarrett) e così evanescente nelle discoteche degli appassionati di jazz, che spesso gli hanno preferito improvvisatori più logici e pettinati come Mehldau, Corea o lo stesso Jarrett. Eppure nessuno di loro mi concilia con l'improvvisazione pura come Bley, intesa come liberazione totale da schemi e condizionamenti ma soprattutto come sincera e artigianale ricerca dello stupore e della bellezza.

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