Con “Opera 4th” si conclude il breve viaggio su questo mondo dei Violet Theatre, band della rinascita per l'instancabile Paolo Catena dopo l'uscita definitiva dai Death SS. Cos'era il Teatro Viola per il Catena se non un luogo dove esprimersi liberamente, senza dover combattere assiduamente con l'ego spropositato e le manie di protagonismo dell'antico compare Steve Sylvester? E così il viaggio si conclude già nel 1987, come se si fosse trattato di una liberatoria gita di piacere (si fa per dire), giusto il tempo di una boccata d'aria fresca (si fa per dire): giusto il tempo per due EP e due album (oltre questo, l'ottimo “In the Darkness”, che rimane il lavoro cardine di questa prima reincarnazione artistica di Paul Chain). Ma come si suol dire, chiusa una porta, si apre un portone, e se nel Teatro Viola ancora aleggiavano i fantasmi che infestavano casa Death SS, è anche vero che al di là del sipario era già in fermento una folgorante carriera solista, che consacrerà Paolo Catena quale personaggio leggendario del panorama mondiale heavy-doom post-sabbathiano.
Ma già in “Opera 4th”, edito nel 1987, l'heavy-metal sembra stare già molto stretto al Chain che in futuro non temerà di scontrarsi con i generi più disparati, spaziando dal progressive alla psichedelia, dall'ambient, alla musica esoterica ed allo space-rock. Non è un caso che l'epitaffio dei Violet Theatre è un disco assolutamente asimmetrico, dove Chain da un lato osa tuffarsi a capofitto nella sperimentazione tout court, mentre dall'altro non sembra avere ancora il coraggio per abbandonare una concezione canonica nell'approcciarsi all'heavy metal: le componenti che confluiranno armoniosamente nella fase della maturità artistica sono qui totalmente distinte come aborti di feti gemelli separati dal ventre della madre con un coltello da macellaio. Da questa sorta di “bipolarismo artistico”, scaturisce un mostruoso e zoppicante nano a due teste: un album di sano e robusto heavy-metal che si apre con mezz'ora di solo organo e tastiere. Strano, no?, che un album di sano e robusto heavy-metal si apra con una traccia ambientale di trenta minuti. E se all'epoca una scelta del genere poteva lasciare allibiti i patiti del timpano rovente, di certo non scompone alla luce di ciò che in seguito Paul Chain architetterà per il piacere delle nostre orecchie (e soprattutto della nostra mente).
Nella sua mezz'ora “Our Solitude (Birth, Life, Death)” passa in rassegna le ambientazioni più tenebrose che all'epoca il metal potesse conoscere (non so, mi vengono in mente certi esperimenti dei Celtic Frost, sprazzi di allucinato dark-ambient relegati tuttavia fra i solchi delle proverbiali sfuriate che di lì a poco spalancheranno le porte al fenomeno black metal). Qui si parla di musica dell'occulto, anche se ascrivibile ad una concezione ancora squisitamente prog/psichedelica, ma già pervasa da una fosca visione esistenziale: una visione da sempre proiettata sul Mistero che si cela oltre la vita materiale. L'organo da chiesa giganteggia in un contesto in cui non si risparmiano dissonanti giochi di tastiere pseudo new-age (dark-age, potremmo precisare), estemporanei guizzi di un'avanguardia malata, ed effetti (voci manipolate ecc.) che qua e là vigliaccamente vanno a colpire proprio laddove l'incauto ascoltatore è più vulnerabile: l'inquietudine innanzi alla Morte e all'Ignoto, ossessioni portanti nell'economia della carriera del Nostro. Ma il fascino e la tensione è quello della musica progressiva più misterica, poiché non si scade mai nel rumorismo fine a se stesso, né in pacchiane ambientazioni da film dell'orrore (e non è cosa scontata, considerato il retroterra horror-filmico che la nostra terra metteva a disposizione, senza poi contare l'eredità di formazioni che sulle colonne sonore ci hanno fatto una carriera – vedasi alla voce Goblin).
I suoni, perversi e striscianti come se prodotti da un'orchestra di dannati, dopo aver fluttuato per lunghi minuti senza posa, sovrapponendosi in coro o recitando monologhi allucinati, s'interrompono improvvisamente, lasciando spazio ad una chitarra ruggente e l'incalzare di una batteria devastante: è “Evil Metal: Obscurity of Error”, e il disco cambia totalmente coordinate. Così repentinamente da lasciare, almeno inizialmente, un po' perplessi. Ma il brano rimane una prova formidabile per la band che si compatta finalmente in un power trio che vede il basso di Paul Dark e la batteria di Alex D'Andrea a completare la formazione. Chain strilla come una vecchia posseduta (par di sentire gli Accept in versione satanica), la chitarra è palesemente sabbathiana (impossibile non pensare al riff portante di “Symptom of the Universe”), nonostante il pezzo viaggi su ritmi sostenuti. Ma non è ancora il doom metafisico di Chain, bensì l'horror metal ereditato dall'esperienza appena trascorsa, e non a caso la voce gracchiante di Chain ricorda non poco le urla stridule dell'antico compare Steve Sylvester, mentre nel complesso la canzone risente pesantemente della medesima ispirazione che aveva animato i primi brani firmati da Chain per i Death SS. Belli comunque i campanacci frastornanti presenti nella sezione centrale, dove le chitarre rallentano, iniettando nel flusso sonoro quell'aura arcana e sacrale che sempre più contraddistinguerà il percorso metafisico del metal targato Paul Chain.
Con “Bath-Chair's Mary” l'album si stabilizza nelle ristrettezze del formato canzone, assestandosi definitivamente in un heavy-metal dai ritornelli accattivanti e dalle chitarre in primo piano. Questo terzo brano, impreziosito da un suggestivo break acustico, ha sì il merito di spingere la nuova creatura di Chain negli impervi declivi di una fascinosa perlustrazione doom che diverrà nel tempo il marchio di fabbrica del musicista pesarese, ma l'impianto rock rimane saldamente legato ad una concezione ancora semplicistica del genere, nonostante tastiere allucinogene tornino ad infestare vaste porzioni del brano.
Con il quarto ed ultimo tassello “Resurrection in Christ”, Chain si abbandona definitivamente all'ondeggiare melanconico di una doom-ballad pregna di melodia, dove le parti soliste della chitarra sono a dir poco sublimi, mentre la prova vocale mostra tutti i limiti tecnici di Chain, che si riconferma chitarrista eccezionale, ma cantante sotto la media.
Difficile giudicare un album come questo, che per i suoi buoni due terzi è composto da ambient, mentre la parte rimanente sembra il frammento mutilato di un album di grezzo rock/metal orrorifico. Forse sarebbe stato meglio separare i due lavori in due EP distinti, poiché prese isolatamente le due parti non sono niente male, ma messe insieme danno l'impressione che entrambe avrebbero potuto essere sviluppate in modo più convincente. I tre brani finali, nei fatti, finiscono per sortire l'effetto di arrestare troppo bruscamente le atmosfere pazientemente tessute dalla prima traccia, che rimane un'opera incompiuta: un'introduzione troppo lunga per un album che sembra avere una grande testa ma un corpo troppo piccolo per mantenersi in perfetto equilibrio.
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