Chi mi conosce lo sa. E se l'è sentito dire fino alla nausea...: la musica cosiddetta leggera ha, come tutto e come tutti (vi svelo un segreto...: anche noi) un inizio, uno sviluppo, un periodo d'oro, uno scollinamento (che andrebbe gestito col minimo sindacale di dignità) ed una fine.
Questo è fondamentalmente il motivo in base al quale sono e rimango convinto che una scoreggia di uno dei grandi sia migliore del capolavoro di uno degli ultimi, magari osannati, giovinastri.
Insomma: come Messiaen fa inevitabilmente cagare se paragonato a Mozart, o il pur bravo Paolo Fresu se paragonato a Miles Davis, uno a caso dei troppi che c'inquinano le orecchie dalla radio è una povera anima che fa pena, se paragonato a Paul Simon.
Tantopiù che non siamo innanzi a una "scoreggia"...: anzi.

Il destino dei grandi, spesso per non dire sempre, è di aver dato alle stampe dei veri capolavori, e coi medesimi essere condannato a misurarsi tutta la vita artistica. Ed è proprio su questo terreno che si misura l'incolmabile differenza tra l'Artista con la "A" maiuscola ed il buon artigiano.
L'artista è il già citato Davis che s'è guardato bene dal campare sugli allori di "birth of the cool" o di "kind of blue", oppure è De Andrè che non s'è fermato a Marinella, Battisti che ha stravolto la storia della musica italiana affiancandosi un genio folle letterario e buttandosi a capate nell'elettronica più spinta.
E un Artista è Paul Simon, che ha alle spalle almeno due vite grandiose. La prima -inutile citarla- è quella vissuta in coppia col bel ricciolone lungo (che poi mai capii in verità quanto lungo fosse, essendo PS talmente piccolo da sfalsare ogni confronto), e la seconda, tanto splendida quanto difficile, è quella che è nata da uno dei capolavori assoluti degli eighties ("Graceland"), seguito -per alcuni- da ottimo artigianato, -per altri- da goffi tentativi di bissare il capolavoro.
Io ritengo che la professionalità e la serietà dell'artista non sia mai stata messa in dubbio e che, anche nel peggiore dei casi, si sia dedicato ad un ottimo artigianato prevalentemente acustico, con un livello standard altissimo e magari -va ammesso...- senza capolavori assoluti.

Oggi, questo "so beautiful or so what", considerato hic et nunc, suona bello, vero, sentito. C'è divertimento, sincerità in questo disco dai suoni al contempo originali ed antichissimi, profondamente legati all'etnico che ha sempre amato l'autore, ma anche alla struttura cantautorale canonica, tipica.
Si nota la quali assoluta mancanza di basso ("sono arrivato alla conclusione che il basso è inutile", ha -misteriosamente- detto un PS allegro in un intervista che ho letto alcuni mesi prima dell'uscita del disco, quando l'autore annunciò la mancanza totale dello strumento, nell'opera, per poi -altrettanto misteriosamente- cambiare idea ed aggiungerlo in un paio di pezzi), che rende il sound qualcosa di inedito e piacevole, qualcosa cui il nostro padiglione non è abituato.
Qualcosa, per capirci, di simile alla cantata con chitarra e bonghi...ma, ovviamente, a livello infinitamente più alto e rifinito.

Insomma: un disco piccolo e grandissimo. Per alcuni un canto del cigno del cantautorato, per altri un colpo di coda.
Forse -me ne sto convincendo sempre di più- semplicemente la prova dell'esistenza e della sopravvivenza del cantautorato come piccola, sublime ed amabile forma di artigianato. Di piccole cose scritte bene, suonate bene ed interpretate bene.
Una realtà poco o per nulla nuova, molto filologica, citazionistica e spesso auto-citazionistica.
Ma, quando la ciambella riesce col buco, con qualcosa di divino.
Insomma: il cantautorato sta diventando una forma più complessa, e sicuramente minore, di blues.

Carico i commenti... con calma