Il terzo album di studio di Paul Simon da solista, e il quarto se contiamo anche Live Rhymin’ del 1974, si apre con le note morbide e sonnacchiose di un piano elettrico.
“I met my old lover on the street last night; she seemed so glad to see me, I just smiled…” , canta nella title-track (“Ho incontrato il mio vecchio amore per strada, l’altra notte; sembrava così felice di vedermi, e le ho sorriso…”).
E’ un album di riflessione e di introspezione, un viaggio dolceamaro nella storia privata di una separazione coniugale, ma è anche un album di svolta stilistica, e non sarà neanche l’unico nel corso di una onoratissima carriera.
Il debutto solista nel 1972 sembrava voler cancellare con uncolpo di spugna i vertici artistici di Bridge Over Troubled Water (inarrivabile apoteosi del pop, realizzato in maniera impeccabile da tutti i punti di vista), e ripartire da zero, con arrangiamenti scarni e ridotti quasi all’osso.
There Goes Rhymin’ Simon ammiccava piacevolmente a diverse influenze, dando l’ennesima prova della cura quasi maniacale di Simon per il proprio lavoro: un artista che si avvale della Muscle Shoals Sound Rhythm Section per un brano velato di gospel e di soul come One Man’s Ceiling Is Another Man’s Floor, ma pensa bene di recarsi in Europa per l’orchestrazione di American Tune, ispirata al tema musicale della Passione Secondo San Matteo di J.S. Bach.
Still Crazy è una nuova sorpresa: qui l’atmosfera è sobria e omogenea, è un disco ricco di venature jazz, con armonie abbastanza inconsuete, come nella delicata I Do It For Your Love, o nel groove ammiccante e obliquo di Have A Good Time. Non mancano, peraltro, potenti aperture melodiche, come in Some Folks Lives Roll Easy, o nella struggente My Little Town, che lo vede per la prima volta tornare a dividere la sala di registrazione con Art Garfunkel.
Ma quello che forse diverte di più di questo Simon in versione a modo suo malinconica, è il sottile, irresistibile sense of humor che impregna i testi: 50 Ways To Leave Your Lover è rimasta nella memoria di molti, oltre per un celeberrimo pattern di batteria di Steve Gadd, per la forza del suo spiritoso assunto, e lo stesso discorso si può fare per la title-track. Come ha osservato Philp Glass, i versi e i titoli di Paul Simon hanno la capacità di imporsi nell’immaginario collettivo con la forza e la pregnanza di certe frasi idiomatiche.
Un altro dei gioiellini di questo album è Gone At Last, nella quale la vena più “nera” di certa scrittura del songwriter trova un’incarnazione perfetta nell’interpretazione vocale di Phoebe Snow.
Un disco che, insomma, al primo ascolto sembra soltanto scorrere via piacevolmente, ma che rivela molti pregi a un ascolto più approfondito e sa farsi apprezzare a lungo.
Ristampato in edizione rimasterizzata nel 2004 con due bonus-tracks.
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