È un titolo importante questo. Un titolo impegnativo, soprattutto per un gruppo come i Pearl Jam. Tuttavia, a distanza di anni, mi chiedo ancora cosa significhi questo titolo, e in che modo si connetta col contenuto dell'album.
Siamo nel 2002. Il mondo è ovviamente cambiato rispetto agli anni '90, anche dal punto di vista musicale. Il rock non riveste più quella funzione didascalica che aveva assunto negli anni passati, conseguenza della potenza dell'utile, ma anche del naturale invecchiamento del genere, giunto al suo massimo splendore un decennio prima ed ora condannato ad un inevitabile processo di decadenza. ‘Riot act' dei Pearl Jam esprime esattamente questa situazione di crisi musicale, cosmica e personale. Personale perché effettivamente, con le dovute cautele, i Pearl Jam non sono mai stati un gruppo con un carattere ben definito. Negli anni '90 e tuttora sono erroneamente definiti come gruppo grunge, considerati padri fondatori del genere dai Green River, e se l'identità è un prodotto sociale, essendo di Seattle si sentirono forse in dovere di aggiogarsi al carro di un genere inesistente, comprendente gruppi totalmente diversi tra loro, come Nirvana, Alice in Chains, Soundgarden, per citare i più citati. E certo sarebbe veramente bello illudersi che sia esistito un movimento detto grunge, mosso dagli stessi intenti, e immaginare Cobain e Staley che mangiano assieme e scrivono una canzone. Ma non era esattamente così, ed i Pearl Jam dimostrarono più volte carenza di personalità, brani privi di mordente, episodi imbarazzanti se non addirittura ridicoli, come in questo album.
L'inizio è già sconfortante: "Can't keep", una canzone senza capo né coda, che qualche grunger-snob potrebbe considerare una canzone d'autore, ma che rivela più che altro un'incapacità di impostare un discorso compatto, deciso. L'imbarazzo cresce con "Save you", dove fa pena Vedder che ripete ‘fuck you' o ‘fuck me', e mi annoia in "Love boat captain", dove mi cita i Beatles, come la Folliero. In "Bush leaguer" pare che se la prenda con Bush, ma non mi scalfisce. In verità salvo solo "I am mine", una sorta di riflessione sul rimanere se stessi nonostante l'insensatezza delle cose. E questo è molto difficile. Difficile come fare rock ‘n roll sulla soglia dei 40 anni, soprattutto se si è cresciuti male. Per il resto, se dovessi citare qualche influenza su questo album, mi viene in mente solo Bruce Springsteen, che almeno riempie gli stadi, e non di certo qualcosa riferibile a quella presunta tradizione musicale entro cui sono annoverati. Ma non è nemmeno questo il punto. Non è rilevante tanto il dimostrare la diversità, se non la completa estraneità dei Pearl Jam rispetto a certi ambienti, a certi canoni, quanto piuttosto rilevare il fallimento del rock ‘n roll come genere che si ponga una progettualità sociale e culturale, e non meramente musicale.
L'atto di rivolta annunciato nel titolo è totalmente disatteso e non perché ci si attendevano inni generazionali, ma proprio perché il disco stesso è simbolo dell'inconsistenza e della fragilità di quella pretesa rivoluzionaria intrinseca alla natura del rock ‘n roll, ed enfatizzata dagli inventori del termine ‘grunge'. Evidentemente, era una pretesa a breve scadenza, perché passati gli anni d'oro, la spinta d'opposizione appare piuttosto svilita. E mancando questa, viene a mancare la stessa possibilità ontologica del fare rock. Di conseguenza non ha senso, e soprattutto, non è necessario continuare a perpetuare un'immagine, chiaramente indotta, che non regge al passare del tempo. Citando Neil Young: "...è meglio bruciare che spegnersi lentamente".
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