La « nouvelle vogue » dell’elettronica francese? Una stella nascente del trip-hop più oscuro, addolcito dall’idioma transalpino? O, se proprio vogliamo essere generici ed andare per verosimiglianze, la risposta francese ai Portishead?
Non credo occorra andar così lontano per descrivere il disco di questa giovincella, di cui a quanto pare non esistono (o non esistevano!) recensioni in italiano (se ne trovate una fatemelo sapere).

Peau, come la pelle, accarezzata dalle note di questo disco. E non solo la pelle, ma anche la mente e il cuore.
Peau, giovane e promettente. Semisconosciuta in Italia, ma in cammino verso il balzo internazionale.
L’ho conosciuta assolutamente per caso, leggendo una sua recensione (in francese ovviamente) su una rivista gratuita distribuita in un TGV diretto a Parigi. Mi sono deciso ad ascoltarla, e non mi aspettavo davvero mi colpisse così tanto. Da Grenoble, è qui al suo primo disco, dove intreccia timidamente inglese e francese (soprattutto il secondo), costruendo piccoli ma affascinanti tasselli di intimità, in un’ universo fatto di immagini contrapposte, di rotture, di vellutate spirali di colore grigio-perla (come le sue foto, costantemente illuminate da tinte oscure e decadenti).
Una voce avvolgente ma non troppo, più che altro intimista. Ed è proprio questa la parola su cui occorre soffermarsi. Peau scava dentro l’intimo dell’ascoltatore, ti fa venir voglia di accendere qualche candela e ascoltare il disco in cuffia abbandonandosi alle sue note.
Qualcuno ha detto che questa ragazza è una sorta di equilibrio tra correnti contrapposte, tra forza e fragilità, né angelo e né demone; certo non si può dar torto a questa interpretazione, dato che tutta la sua musica gioca proprio su tale effetto, sul chiaroscuro, su una delicatezza che si fa graffiante quando può e deve farlo.

La prima canzone è un segno di queste visioni contrapposte, e il video realizzato da Perrine Faillet per renderle omaggio ne è un perfetto esempio. La sua è una musica visiva, fatta di immagini incollate tra loro come se esprimessero quello che è lo scorrere della musica e il divaricarsi dei ritmi nel cervello. Come quando nel video della title-track lei stessa scuote la testa a suon di drum machine, e la sua gemella viene ricoperta di fango che va via da solo per trasformarsi in acciaio liquido e in una serie di clip spezzati, poi distrutti, poi rimontati.
Ma se tale title-track rimanda più al trip-hop, è nelle canzoni più lente che emerge lo spirito della giovane transalpina, come “Litanie du coup de foudre”: la sua voce sussurrata, che narra le parole di Jaqcues Rebotier, si fa anima e sentimento di un arpeggio ossessivo e tagliente, sussurrato anch’esso e portato a braccetto da ticchettii di pianoforte e cori che fanno emergere strani e oscuri fantasmi del passato. Non solo elettronica quindi: anche un’accennata chitarra elettrica e una timida batteria sostengono un ritmo che è come la corrente di un piccolo fiume, lenta e dolciastra, ma che riesce nel suo scopo di trascinare l’ascoltatore con sé. La musica poi si ingrossa, in un crescendo naturale che contrasta con un cantato che si fa sempre più opprimente, come le emozioni di chi l’ascolta. Attenzione però, perché il suo lato più emozionale non è mai diretto, ma sempre sottile, come se non volesse mai shockare e colpire in faccia chi la ascolta, strizzando sempre l’occhio all’orecchiabilità, per quanto complessa e mai banale.
Violenta dolcezza.

Non mancano infatti episodi più orecchiabili, come “Kyle” o “Sensuelle”, dove le melodie create dagli intrecci di arpeggio e voce si fanno ascoltare con piacere fino alla fine e senza mai annoiare. Convincono piacevolmente il suo mordente e la sua coerenza, i suoi arrangiamenti sognanti e quel suo delicato romanticismo d’altri tempi. Esce fuori la testa dalla sua natale Grenoble, con quel faccino da Bjork orientaleggiante, e crea un universo ondeggiante, costantemente in bilico tra visioni bleakiane sporcate da una techno soffusa e una leggiadra intimità chitarristica, tra sfrontatezza rock e un tocco di caos paranoico e “viaggione” (la sperimentale “Breathe”).
Unica nota stonata gli episodi leggermente più ruffiani, come “Enola Gay”, certo belli anch’essi ma a mio avviso rovinati da una certa “allegria rock” che stecca un po’ con il resto delle composizioni (almeno a mio avviso, qualcuno potrebbe invece trovarla invece un punto di forza).

Nel complesso, un album riuscito e decisamente ispirato, anche se ancora acerbo, che fa ben sperare nel futuro artistico di questa cantautrice originale e visionaria. Consigliato a tutti gli amanti della musica elettronica, del trip-hop, del rock “femminile” e della canzone d’autore francese, non ho dubbi che possa farvi trascorrere minuti di piacere nell’attesa di un disco più maturo e di una meritata attenzione anche fuori dai confini d’oltralpe.

Come si dice in casi simili, bella e brava (parere soggettivo...)

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