Questo è il canto notturno di un pastore errante per la Calabria, il Canada, la Repubblica Ceca. Peppe Voltarelli torna in sella a un ciuccio, vestito della pelle di un lupo e armato di chitarra, come da art work (sotto il cd all’interno della custodia). Prode e fido Sancho Panza di se stesso, a fare da contrappeso alla sua parte donchisciottesca. Peppino obnubila a tratti le sue visioni da sogno inebriante, calibrando un’atmosfera dove Pindaro non vola, arriva al salto ma resta imprigionato. È uno stato perenne di malinconia beffarda, di riflessione accarezzata da allegria e lacrime, modellata con la struggente semplicità di chi ha la capacità di raccontarti storie così come sono. La statura artistica cresce notevolmente in questo passaggio della sua carriera (aprile 2010). "Ultima Notte a Malà Strana" – di cui riscrivo la recensione perché l’altra era di poche parole che non rendono bene l’idea / vedi DeCasi, se vuoi – rende più piccolo l’esordio da solista (ugualmente di pregevolissima fattura), intraprendendo definitivamente il sentiero personalissimo della vita da crooner che, nell’episodio precedente, probabilmente ancora risentiva del distacco (più che altro psicologico) da Il Parto delle Nuvole Pesanti.

Si tratta di un disco fortemente cantautorale, che vive di un mood ormai diventato la griffe di Peppe, ancorato a rimandi caraibico-andini (monsieur Manu Chao docet, ma senza tutto quel globalismo no global nel suono) e al retaggio della grande canzone italiana d’autore. Questa volta non solo Modugno (almeno a livello interpretativo), perché in alcuni episodi ho sentito cantare il compianto Pierangelo Bertoli, e in altri (a dire il vero uno solo) il contemporaneo Capossela. Ma ciò non conduca alla facile conclusione che Voltarelli citi (parolaccia!) qualcuno per stare simpatico a tutti. Un disco di Voltarelli è un disco di Voltarelli. Troppi sono i tratti distintivi e caratterizzanti la sua identità. Se la sua musica riesce a vivere nel mondo sotterraneo e quasi esanime del retropalco impegnato e non sponsorizzato italiano, è proprio perché quella del nostro è una chanson che canta una personalità specifica, intrigante e insolita, con musiche filtrate dall’occhio criticamente secco del protagonista. Il miglioramento (a mio parere) del songwriting è marcato sempre più da un lirismo che non è pantomima, ma è meridionale con denominazione d’origine controllata e da proteggere. Nel brano top di questa uscita, "Quando Ni Vo", ballata pizzicata alla chitarra degna dei migliori pezzi di Daniele su questo stile anche se nettamente calabra e non partenopea, è il cuore che scrive e canta, senza finzioni. I testi sono sempre diretti e divisi tra le visioni dell’autore e l’analisi di alcune realtà ben messe a fuoco. Emerge per poetica il testo di "Marinai", che senza retorica racconta le conseguenze sulla vita di chi doma e si fa domare dal mare, così come notevoli sono le parole di "Sta Città", luogo vissuto tra testa bassa e alta, apprezzabile per lo schifo e il piacere che procura. Un canto degli opposti, quelli in cui forse è abituato a vivere il Voltarelli fin dall’età in cui stava realizzando di vivere ne "Il Paese Dei Ciucci", altro brano amaro ma chiaro nel dire che “non ci voglio vivere più nel paese dei ciucci iih oh iih oh”, brano indirizzato al paese anestetizzato, e privato del senso critico. Ritorna anche in primo piano il suo calabrese, dialetto rude e affilato di cui emerge una musicalità adatta all’enfasi vocale da immedesimazione del cantante. Nella pronuncia spicca di nuovo una “r” tosta e morbida, grecanica,  rotonda e sonorante. A volte le parole sono berciate alla Giancarlo Giannini ne “I Picari”. Insomma, c’è molta testa nel toccare le corde vocali e nell’attività di paroliere che trasporta l’ascoltatore anche a Montreal (Coup De Coeur a Montreal) e a Praga (con la titletrack), dove gli intrecci testuali sono in francese e ceco. Il livello musicale dell’elaborato è validissimo, e vede l’autore impegnarsi alla chitarra principalmente, ma anche alla fisarmonica e alle percussioni (queste davvero ricche e dalla sedimentata evocazione di luoghi poveri del mediterraneo). Le abbondanti partecipazioni firmate Bandabardò (Finaz, Bachi), si prendono cura di chitarra e contrabbasso. C’è anche Enriquez a duettare alla voce sul testo di "Leo Ferrè Les Anarchistes", tradotto interamente in italiano (Gli anarchici). Forse il punto patemico più alto dell’album.

Le musiche abbracciano i testi accompagnandoli in questo viaggio di scaltro uomo vissuto ovunque, un  po’ poeta, disilluso sognatore, affascinante beone che non si ubriaca mai, lucido analista sociale. La transumanza musicale risponde a quella delle liriche in maniera assolutamente coerente, restituendo una figura a sé stante nel panorama dei cantautori italiani. Senza squilli di trombe, per l’ennesima volta, esce un disco credibile e intelligente, che fa dell’autenticità la sua chiave di lettura. Forse è così autentico (basti pensare al cantato in calabrese realmente ostico per chi non lo capisce) che a tratti sembra un disco scritto per se stesso, come un diario di bordo in questo lungo viaggio da solista che vede Peppe Voltarelli rientrare nel sempre solito – ma questa volta più largo – circolo di librerie, associazioni, club, festival che in Italia ancora vive, nonostante tutto. L’estero lo chiama, e infatti tra poco sarà di nuovo in Germania. L’Italia, per fortuna, lo nota sempre di più. Proprio lui, nota stonata in una scena musicale nazionale divisa tra patetico e finto alternativo. J’accuse. Parola alla difesa. O a chi ama Voltarelli, senza sterili polemiche.

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