Su Debaser è recensito praticamente di tutto. Eppure salta agli occhi ogni tanto, tra 7(!!!) recensioni degli ultimi album di Oasis o Depeche Mode, l’assenza di nomi che hanno scritto pagine significative nella storia del pop. Una delle lacune più sorprendenti nell’archivio debaseriano credo sia quella relativa ai Pet Shop Boys.

Il duo formato da Neil Tennant e Chris Lowe non sfornò soltanto furbe istantanee dancey degli anni 80 come “West end girls” o “Domino dancing”, ma contribuì intelligentemente a plasmare l’estetica di quel decennio, e il modo in cui questa avrebbe esteso la sua influenza in senso post-moderno negli anni venire. Tale estetica si esprimeva sia nell’immaginario evocato dal duo – di solitudine e noia in mezzo all’ansia edonistica dell’era yuppie, nonché di emancipazione sessuale nell’Inghilterra thatcheriana –  sia nel rendere  appetibili alle masse  le intuizioni dei vari Kraftwerk, rendendole organicamente dilatate. Si pensi in tal senso a un brano come “Dj Culture” o alla beffarda cover hi-nrg di “Where the streets have no name” degli U2.

Tale rivoluzione silenziosa venne portata avanti da una serie di singoli strepitosi, da “Rent” a “Left to my own devices”, che resero i Pet Shop Boys una delle band da singolo per eccellenza, come i Kinks o i T-rex. Non ci sono infatticapolavoro indiscutibili tra i vari album che Tennant e Lowe hanno realizzato nel corso degli anni, ma ci pare che “Behavior” sia quello che più sfiora la perfezione a 33 giri. Pubblicato nel 1990, mostrò in bella evidenza tutti gli elementi del sound che rese grandi i nostri. Le sontuose tessiture col sintetizzatore di Lowe, ora sinfoniche ora hi-nrg ( come da lezione Soft Cell), il pathos misurato del cantante Neil Tennant, un Morrissey altrettanto intelligente e ironico benché meno enfatico. L’approccio è però ben più ambizioso, organico e cerca palesemente di forgiare finalmente un album da registrare agli annali, come già tentato su “Actually”. In tal senso le prospettive stilistiche ampliano i propri orizzonti, con diverse partiture di pianoforte che soppiantano le tastiere e vi sono persino parti di chitarra (è ospite Sua Maestà Johnny Marr).

Di appetibile per i dancefloor c’è solo il numero alla Village People di “So hard”, il resto del disco scivola via su coordinate sonore inusitate, regalando una manciata di episodi memorabili. Esemplare in tal senso è “Jealousy”, in cui le tentazioni dance si infrangono su uno scintillante tappeto sonoro reminiscente del Bowie periodo “Rock ‘n’ roll suicide”. Eccellente è anche la cavalcata funk “How can you expect to be taken seriously?”, gustosa parodia delle varie “rockstar umanitarie” alla Bono e Sting, o la vena soul che avvolge “To face the truth” o una “Only the wind” la cui melodia – spogliata dalla scorza digitale –  sembra uscita dalla penna del più grande soul man bianco conosciuto, Neil Young.
Ma il capolavoro di “Behavior” è certamente la struggente “Being boring”, a nostro avviso uno degli apici del pop di ogni tempo, grazie anche ad un videoclip che ha fatto epoca. E’ una commossa elegia di Tennant per un amico morto di Aids, nonché un affresco dolceamaro dell’Inghilterra negli anni verdi del cantante. Lowe è magistrale nel calibrare al meglio tastiere, chitarre e sintetizzatori in una miscela quasi morriconiana senza essere magniloquente, mentre Tennant fornisce la sua miglior performance di sempre, sussurrando frasi come “But I thought in spite of dreams /You’d be sitting somewhere here with me”. Migliore suggello agli anni 80 non poteva esserci, e di lì a poco sarebbe iniziato il declino della premiata ditta Lowe-Tennant.

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