C'è una donna. La amo. Mi odia. Una sera di luglio di tre anni fa guardavamo il mare e sognavamo di volare a Berlino. Faceva caldo, la musica dei locali del litorale romano e le urla di un turista in costume troppo grasso per non essere americano, cui avevano preso il portafoglio e i vestiti, ci facevano scoppiare la testa. Lei mi ha detto senza guardarmi, sorseggiando una coca in lattina, "E' meglio se non ci sentiamo per un po'."
Quella estate ho cercato di ingannare il tempo. Bevevo troppi alcolici e passavo le notti a leggere "L'ombra dello scorpione" di Stephen King. Qualche amico mi spediva cartoline da Santiago de Chile, Nicaragua, Termopili, Scalea, Guyana (francese), Santa Fe. Confidavo che una qualche epidemia avrebbe prima o poi messo fine alle mie sofferenze, quando è arrivato l'autunno e le ho telefonato, "Chiara, sono pazzo. Ho letto anche tutte le mille pagine de "L'ombra dello scorpione", ma - vedi - non riesco a smettere di pensare a te." Non lo so cosa le passa per la testa. Mi ha detto che si vedeva con un altro, un dinosauro relativamente noto negli ambienti più pseudometallari della capitale, che prima o poi se ne sarebbe andata a vivere a Oslo, che senza di me si sentiva finalmente libera di esprimere le sue capacità artistiche. Che anche io a suo dire avrei dovuto cercare di fare lo stesso. "Credevo mi stessi chiamando per dirmi che hai ricominciato a suonare. O perché hai comprato un nuovo pedale."
Un nuovo pedale? E' già tanto se uso la distorsione dell'amplificatore. Non mi piacciono le sue fotografie. Non sanno di niente.

C'è una donna. Mi ama. Ma ancora non lo sa. Dovevamo uscire assieme, ma se ne è dimenticata perché ha troppe cose da fare. Qualche mese fa l'ho vista alla televisione, ospite in una popolare trasmissione in onda sul terzo canale in prima serata almeno una volta alla settimana, che si batteva per denunciare lo stato desolante in cui è gestito un importante sito archeologico dell'area flegrea. I suoi capelli rossi bruciano come il fuoco del vulcano Soufrière sotto il sole caraibico dell'isola di Montserrat. E' una dottoressa e io vorrei essere vivisezionato.

C'è un uomo. No, va beh, lasciamo perdere.

Péter Esterházy è nato a Budapest il 14 aprile del 1950. Péter Esterházy è laureato in matematica all'Università di Elte (sempre Budapest) ed è generalmente considerato uno dei fondamentali scrittori ungheresi dei nostri giorni. Péter Esterházy è discendente di una delle più antiche famiglie nobiliari ungheresi, gli Esterházy (appunto), le cui origini risalgono all'incirca al dodicesimo secolo. Péter Esterházy è di sicuro parecchio blasonato e ancora di più premiato - Premio ungherese per la Letteratura e Premio Sándor Márai (2001), Premio Grinzane per la letteratura straniera (2004), Premio per la pace dei librai tedeschi (2004) etc etc. Péter Esterházy ha scritto un "romanzo familiare", il famigerato Harmonia Caelestis, vero mattone di all'incirca settecento (dico 700) pagine in cui il nostro ci presenta cronache miti e leggende della dinastia Esterházy, i cui rappresentanti sono di volta in volta etichettati nel testo come "il mio buon padre", dagli albori fino ai tempi più recenti, che è universalmente considerato opera monumentale della letteratura europea degli ultimi anni, ma che io personalmente vi consiglierei di evitare. Poi fate voi.
Ai più maligni dico che non è il caso di fraintendere. Péter Esterházy è un personaggio sicuramente interessante, nonché autore capace, brillante, persino ironico. I "buoni padri" di Harmonia Caelestis sono veri aristocratici. Sporchi, vigliacchi, fanfaroni, cialtroni e per lo più incapaci. Più prossimi al Brancaleone da Norcia di Mario Monicelli piuttosto che romantici eroi non troppo dissimili dai principi azzurri delle fiabe. Solo, settecento pagine (lo dico di nuovo, 700) di vicissitudini degli Esterházy, soprattutto di questi tempi che gli aristocratici ce li ritroviamo pure a cantare alla televisione, mi sembrano un po' troppo. Così, se proprio siete interessati a verificare le capacità di questo tutto sommato interessante scrittore nato e vissuto-vivente a Budapest, vi consiglierei di cimentarvi nella lettura di questo altro libretto significativamente denominato Una donna. Una donna che poi sarebbero novantasette donne per centocinquantaeuno pagine.

La formula adoperata dall'autore è sostanzialmente la stessa di Harmonia Caelestis. Anziché dire degli aristocratici antenati - "il mio buon padre" - l'autore questa volta descrive brevemente novantasette brevi resoconti di storie più o meno d'amore. Così, ci sono donne che hanno il 43 di piede e le unghie dei piedi spezzate, donne con il grembo ispido come il crine di un cavallo, donne che sanno tutto di John Lennon e donne in tailleur rosso scarlatto. Donne, madri e donnicciole, donne che amano e che odiano. Fondamentalmente, c'è una donna. O forse ce ne sono novantasette. Di certo c'è sempre un uomo, che di volta in volta è (più) vittima e/o (meno) carnefice di queste novantasette donne tanto affascinanti quanto aggressive, arroganti e capricciose. Detestabili creature dalle "gambe così belle da far girare la testa. Splendide. O sono solo le calze?" 

Che altro vi devo dire? Questo libretto, che tra le altre cose e se siete pure solo dei discreti lettori lo leggete tutto nel giro di poche ore (e anche meno), è abbastanza divertente e persino consigliabile anche a chi, come il sottoscritto, delle donne non ha mai capito un bel niente e magari ne ha almeno una da dimenticare. Péter Esterházy vi offre novantasette donne per dimenticare e, giacché Lucio Battisti se ne faceva bastare ottantasette di meno, bisogna dire che questa volta vi è andata di lusso. Se poi volete saperne di più sull'argomento vi rimando all'ascolto di tutti i dischi di Federico Fiumani. Ma di questo avremo modo di discutere ancora e ancora.

Una donna (72)

"C'è una donna. Mi ama. La amo. Al momento il suo corpo mi annoia. E' qui che si rigira di fianco a me. Piuttosto mi meno l'uccello. No, non va, troppo diretto."

(Péter Esterházy)

Nemmeno troppo breve nota a margine del DeRecensore

Sebbene io non sia mai stato - e me ne rammarico - a Budapest, in Ungheria, ho in qualche modo sempre subito il forte fascino di questa città e di questo grande paese dell'Europa orientale. Idealmente, mi piace pensare che questa mia "passione", se così la si può arrivare a definire, sia nata quando ero ragazzino e dalla lettura delle vicende di Nemecsek in quella gran bella storia di Ferenc Molnár intitolata I ragazzi della Via Paal (probabilmente 1907), ma non è il caso di stare qui a raccontare storie. La verità è che sono drogato di calcio e a cavallo tra gli anni ottanta e gli anni novanta ha giocato proprio in Italia, con le maglie di Bologna Ancona e Genoa, l'ultimo grande esponente della gloriosa scuola calcistica ungherese. Si chiamava (si chiama ancora oggi che di mestiere fa l'allenatore) Lajos Détári, anche lui era nato e cresciuto a Budapest e nel suo piede ci cantavano gli uccelli.
Figlio di operai di una fabbrica di cartoni, Lajos Détári era tanto talentuoso quanto presuntuoso. Collezionava automobili e giocava solo quando e se ne aveva voglia. Una volta allo Stadio Giovanni Celeste di Messina - rimpiazzato negli ultimi anni dal San Filippo e, pare, destinato alla demolizione - sbagliò un goal già fatto e dichiarò di averlo fatto apposta, perché, "Quando io voglio sbagliare un goal, beh, io lo sbaglio." Lajos non piaceva all'avvocato Agnelli che corse a vederlo giocare a Francoforte quando Lajos militava nell'Eintracht e dichiarò che "Somiglia a Platini come io a Sofia Loren." Tuttavia, se è vero che Détári non è stato di certo un degno erede di quella scuola calcistica magiara capace di fare paura al mondo negli anni cinquanta ed è tristemente passato alla storia come "bidone", è altrettanto vero che c'è ancora chi come il sottoscritto - ma non solo, se è vero che tale Gianluca Morozzi, scrittore bolognese classe 1971, mette nome Lajos a un protagonista delle sue storie proprio per omaggiare il campione di Budapest - lo ricorda ancora con affetto e che qualche cosa questo giocatore doveva pur valere se è vero che era la stella e il numero 10 della Nazionale ungherese che partecipa per l'ultima volta ai Campionati del mondo nel 1986.

A questo punto vi starete domandando cosa c'entra tutto questo con Péter Esterházy e con la letteratura ungherese. E' presto detto. Purtroppo, manco a dirlo, la spedizione messicana - la manifestazione, come sappiamo, sarà poi vinta dall'Argentina di Maradona - sarà un mezzo fallimento e la nazionale ungherese, inserita nel Gruppo C con URSS Francia e Canada, non riuscirà a passare nemmeno la prima fase. L'Ungheria prende sei reti dall'URSS e tre dalla Francia di Platini e si qualifica al terzo posto con due punti dopo aver sconfitto il Canada per due a zero. Ecco, ci siamo. La rete che chiude il match la mette al segno proprio Détári al settantacinquesimo. Ma il primo goal lo aveva segnato il numero 11 degli ungheresi, tale Márton Esterházy da Budapest - che, a proposito, oggi fa pure lui lo scrittore. Esattamente, fratello di Péter Esterházy (da Budapest!).

Ve l'avevo detto io che si tratta di un tipo interessante.

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