Non è certo difficile scovare nella storia del rock artisti che, da leader carismatici di gruppi fondamentali, hanno abbandonato i loro compagni per intraprendere coraggiose o rischiose carriere soliste, vendendo spesso  la loro anima di compositori per raggiungere esclusivamente obiettivi commerciali, a discapito della qualità musicale. Peter Gabriel è però forse uno dei pochi fra questi ad aver raggiunto entrambi gli obiettivi, riuscendo, grazie al suo brillante genio, a coniugare nel corso della sua carriera ritmi più orecchiabili ma mai banali, a brani di elevato livello musicale.  

Abbandonati i Genesis ad una lunga e triste agonia che si protrae ancora ai giorni nostri, nel 1976, Gabriel decide di dare un taglio netto (ma ancora non così netto) con il passato volendo ricostruire da zero una nuova carriera e soprattutto creando un originale stile personale nel comporre musica. E per fare i primi passi nel suo cammino solista,chiama in aiuto due grandissimi personaggi legati alla storia del progressive(di cui il disco presenta ancora delle leggere tracce): nientemeno che il Re Cremisi alias Robert Fripp e Tony Levin, importante collaboratore degli Yes e dei prima citati King Crimson.
Le premesse sembrano promettere un album di grandissima qualità musicale e difatti Peter Gabriel non delude le aspettative generali; nel 1977 vede la luce il suo primo grande capolavoro intitolato "Peter Gabriel I: Car". Un disco pervaso da un forte sentimento di malinconia (probabilmente sfogo postumo dei suoi problemi familiari e dell'abbandono dei Genesis), visibile già prima dell'ascolto, se si nota sulla bellissima copertina il grigio e sbiadito volto di Gabriel disegnato dalla pioggia che scivola sul parabrezza di un'auto. Un volto che è un riflesso non ancora ben definito, senza una forma precisa, come la sua nuova musica.

La prima traccia del disco "Moribund the Burgemeister" potrebbe essere ancora considerata una canzone dei Genesis vista la presenza delle stesse atmosfere fiabesche, oniriche e ai continui cambi di regime nel corso del brano tipiche del progressive (che stava morendo lentamente in quegli anni). Ma allo stesso tempo c'è qualcosa di nuovo, di originale rispetto al passato: nuovi suoni elettronici e meno barocchi, la bellissima voce tetra di Gabriel che irrompe sul brano e ne spezza il ritmo.
Con "Solsbury  Hill", sfruttando il nome della collina sulla quale Re Artù sconfisse i Sassoni, Gabriel torna alla famiglia, ai sentimenti veri, alla malinconia per la propria terra; e dimostra di essere oltre che maestro di progressive anche maestro di folk, in una ballata che ritengo ancora oggi uno dei suoi brani più belli. Uno stupendo attacco di chitarra classica (o forse di banjo), e si vola subito verso il passato, sulle verdi colline inglesi, mentre in chiusura dominano i poderosi riff di chitarra elettrica.  
Altra grandissima hit dell'album è "Modern Love", con uno stile più vicino al rock-punk, in cui Gabriel canta strillando con rabbia un testo decisamente più "sporco" dei precedenti citando ombrelli telescopici, Lady Godiva (vi ricorda niente Peeping Tom che divenne cieco?), romanticismo fuori di moda, canne d'organo che fanno strillare una donna,eccetera... 
E' poi la volta dei simpatici coretti che aprono "Excuse me", un divertissement che ricalca la "Join the Gang" di un certo David Bowie. Ed è forse proprio con questo brano che Peter Gabriel sperimenta qualcosa di totalmente nuovo rispetto al suo stile passato. Ma è con "Humdrum", che si comincia a comprendere la poesia melodica che comporrà la sua grande carriera solista, attenta alla pochezza e alla precarietà della vita ma cercando di trovare un senso,un obiettivo per andare avanti. "Slowburn" torna a farci respirare "aria Genesis", chitarre tirate per dare un'atmosfera epica, voce incalzante, cambi di tono,in sostanza ancora un buon esempio di progressive.
Nuova inversione di regime, per  la stupenda "Waiting for the Big One", dove Gabriel si concede all'anima blues cantando in una maniera del tutto nuova. Atmosfere da bassifondi, un bar dove il povero protagonista del brano annega nell'alcol in attesa dell'anno nuovo, in attesa di una nuova speranza, di un cambiamento nella sua vita; pezzo triste si, ma a mio parere uno dei punti fondamentali dell'album. Il legame con il passato sembra non voler morire mai, ed ecco che una fanfara trionfale di trombe e organo apre "Down the Dolce Vita", che dopo pochi secondi esplode in un incalzante ritmo progressive. Magistrale è l'intermezzo aperto dai rulli di tamburi e di orologi a cucù.
Il terreno è pronto per l'apice dell'album, per una delle ballate più belle di Peter Gabriel, alias "Here comes the flood", che credo dal vivo possa provocare emozioni ancora più grandi di quante non ne possa dare la versione acustica. Una flebile base di organo allieta la dolce voce di Gabriel fino all'esplosione nel ritornello: 

"Lord, here comes the flood
We'll say goodbye to flesh and blood"

La morte viene concepita come un'ascensione,una liberazione dai corpi terreni e il canto diviene struggente e disperato ma anche gioioso.

"Peter Gabriel I" è un chiaro esempio di come un artista legato ad un certo tipo di musica per anni possa riscoprirsi, giocare con la sua poliedricità per stupire il pubblico; finito il periodo dell'istrionismo (per ora) inizia quello dell'esistenzialismo (per l'impegno sociale si dovrà ancora attendere).

Ma tutto questo è solo l'inizio, molte sono le perle che il nostro camaleonte dovrà ancora riservarci.

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