Il titolo di questo lavoro di Gabriel è quasi una sfida alla profusione di parole che circonda il mondo della musica: basta un monosillabo ricco di interrogativi e sorprese come So per indicare con la dovuta chiarezza l'essenza più profonda dell'album.
Da artista eclettico e sensibile quale ormai ha ampiamente dimostrato di essere, Peter Gabriel rinuncia ad alcuni standard del passato. Le maschere inquiete e le immagini tormentate che campeggiavano nelle copertine degli album precedenti hanno lasciato il posto ad una fotografia semplice e pulita. Il volto di Peter lascia trapelare una nuova serenità e, in primo luogo, mostra un immagine finalmente non distorta e camuffata. La semplicità e l' immediatezza, la voglia di esporsi in prima persona senza mascheramenti o intermediari letterari sembra essere il nuovo intendimento dell'artista. La Virgin, nuova casa discografica, può condizionare soltanto marginalmente le scelte di un pesonaggio tanto libero e caparbio, e sicuramente accetta di buon grado il recupero di alcune sue vecchie passioni come le sonorità Atlantic, Stax o Motown, il soul e il rhythm and blues.
Le vicende umane e professionali di Gabriel, in particolare l' incontro con l' immenso e affascinante patrimonio musicale africano, condizionano sensibilmente la strategia compositiva di So, anche nella scelta dei musicisti. Per la prima volta, dpop anni, viene a mancare la collaborazione di Jerry Marotta (limitata ad un solo intervento nel brano In your eyes), sostituito dall'ex batterista dei Police Stewart Copeland, che recupera prontamente lì utilizzo dei piatti. Sempre alla batteria, assai significativa è la presenza del giovane Manu Katche, astro nascente della corte di Gabriel, abilissimo pecussionista franco-africano che introduce i taburi parlanti, strumento protagonista nelle sonoritàtradizionali africane. Al basso, l' immancabile Tony Levin è affiancato da Lerry Kline mentre ai fiati, che avranno un rulo importante nell'arrangiamento dell' album, sono affidati all' abile regia di Wayne Jackson dei leggendari Memphis Horns.
Ma le novità circa la line up di So non si esauriscono qui. Il Womad festival, nel quale Peter Gabriel ha profuso impegno ed energie fin dalle origini, che risalgono al lontano 1982, gli ha permesso di entrare in contatto con molti musicisti europei, asiatici, americani e africani. Primi fra tutti, il senegalese Youssou N'Dour, la cui voce ammaliante e intesa dà una decisa sterzata etnica all'impianto sonoro del disco, e il violinista indiano Shankar. Unico dato sorprendente, putroppo in senso negativo, l'assenza del mago dell'elettronica Larry Fast, che dopo anni di brillante collaborazione viene menzionato nei crediti finali solamente per il lavoro svolto in brani non inclusi nell'album. Quanto ai campionatori, d'altra parte, sono ormai padroneggiati con abilità dallo stesso Gabriel.
L'album si apre con una splendida solenne "Red Rain" , ispirata ad un sogno ricorrente di Peter; una sorta di incubo fatto di mari tempestosi e acqua nera e rossa che gradatamente si trasforma in una pioggia devastante e liberatoria. Come afferma lo stesso autore, la pioggia rossa ha una forte valenza simbolica e rappresenta i pensieri e i sentimenti rimossi o negati che, presto o tardi, riemergono con forza. L'accostamento pianoforte-voce che anima il finale di questo pezzo è uno dei momenti più suggestivi dell'album. Il brano trova qui una sua versione definitiva dopo parecchi anni di registrazione. In contrapposizione al fascino onirico del branoi di apertura, avanza con incedere perentorio la travolgente "Sledgehammer". A questo brano si deve gran parte del successo commerciale di So e a esso è abbinato uno dei video più divertenti e creativi mai realizzati. Musicalmente Sledgehammer paga un forte tributo al soul e alla musica nera di cui Gabriel si nutriva durante la sua adolescenza; basta ascoltarela bella sezione di fiati guidata da Wayne Jackson per essere catapultati in pieno clima Stax.
L'atmosfera si fa più evanescente e intimistica con "Don't give up", una canzone originariamente ispirata ai drammi di vita della grande depressione. L'autore intende creare una sonorità che lui stesso definisce Country gospel, a sottolineare il connubio di malinconia e speranza, disperazione e voglia di riscatto presente nel testo. Inizialmente Gabriel sembrava intenzionato a intraprendere da solo la canzone, sovraincidendo la seconda voce. Poi si convinse che l'alternanza di una voce maschile e una femminile avrebbe reso più significativo e toccante il brano e in breve operò le necessarie modifiche al testo. L'apporto di Kate Bush, con la sua voce evocativa, si rivela decisivo perun buon esito della canzone, diventata negli anni un classico nel repertorio live dell' artista. Gabriel ammette una diretta influenza dei Byrds nella struttura della successiva "That Voice Again" . Per la prima volta dall'allontanamento dai Genesis, l'artista si riappropria del suono di una chitarra a dodoci corde e lo utilizza per dare impulso a un brano forse un pò fragile dal punto di vista compositivo ma sicuramente gradevole. Si prosegue con "In Your Eyes", un'intensa canzone d'amore capace di trasmettere una forza emotiva straordinaria. L'origine di questo brano è così spiegato dallo stesso autore: secondo la tradizione africana, le canzoni d'amore devono avere una duplice chiave di lettura, quella dell'amore nei confronti di una donna o di un uomo e quella che celebra l'amore nei confronti di Dio. Il fatto che queste due visioni dell'amore possano coesistere all'interno della stessa canzone è motivo di grande interesse per Peter, che offre una sua personale interpretazione di questa teamatica nelle parole accorate di "In your eyes". Anche la struttura musicale della canzone ha un grande fascinoe, in questo senso, il contributo del giovane cantante Youssou N'Dour è essenziale per mettere in evidenza le radici etniche del brano.
La successiva è "Mercy Street" in cui l'aspetto più interessante, al di là del misurato e suggestivo pianoforte, è sicuramente quello relativo alle liriche. L'ennesima sterzata arriva con "Big Time", sorta di funky irruento e grottesco da far invidia ai più accreditati autori di black music. Il taglio ironico e ludico è evidente, tanto da risultare una sorta di parodia della frenetica rincorsa al successo è una componente basilare della natura umana.
Adesso abbiamo un brano già noto ai più attenti estimatori di Gabriel: "(We Do What We Are Told) Miligam'37". Più volte proposto vivo, viene inciso su un album ufficiale dopo innumerevoli ripensamenti e ritocchi. Le sonorità sono decisamente Krimsoniane e alla loro elaborazione deve aver contribuito senz'altro il legame artistico fra Gabriel e Fripp.
Il disco si chiude con "Excellent Birds(This Is The Picture)", una ottima canzone scritta a quattro mani con Laure Anderson.
Il disco più bello, più riuscito, più commerciale, insomma il migliore di Peter Gabriel.
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