Che cosa c'è di male se un disco vende moltissimo ? Niente, sembrerebbe. Ma si può star certi che spunterà fuori qualche critico che scopre l'acqua calda e decide di bollarlo come "commerciale", come se invece esistessero dischi fatti con il preciso intento di non vendere, come se un artista rimanesse tale solo finché è conosciuto solo dai suoi parenti.

Ora, se Peter Gabriel è una vecchia faina e decide di piazzare due brani acchiappagonzi in uno splendido album del 1986 chiamato "So", con la logica conseguenza di vendere a cappellate, è lecito dire che tutto d'un tratto si è trasformato in un fenomeno da classifica e quindi accostarlo ai divi di plastica per antonomasia, da Madonna a Michael Jackson ? Direi proprio di no. Intanto per "Sledgehammer", uno dei due suddetti "hits", mi dichiaro socio del club dei gonzi, dato che mi ha catturato fin dal primo ascolto. È una perfetta miniatura di soul anni '60 che avrà fatto fare senz'altro qualche salto nella tomba al grande Otis Redding, ma è costruita e orchestrata così bene che viene voglia di perdonare ogni traccia di plagio. In particolare la parentesi strumentale con le "giravolte" del flauto è irresistibile. Più ordinario il secco e nervoso elettro-funky "Big Time", che comunque fa pur sempre impallidire la "dance" dell'epoca (che pure a quei tempi aveva ancora qualche parvenza umana...).

Tolti di mezzo questi due episodi appariscenti ma un po' fuorvianti, entriamo nella vera natura di "So", che è prevalentemente tetra e disperata come è nelle corde dell'autore. Rispetto all'ottimo precedente "IV", a tratti un festival di percussioni tribali, è un Peter Gabriel più chiuso, più occidentale, ma sotto sotto cova un fuoco africano, pronto a divampare nello scatenato duetto con Youssou 'N Dour al termine della ritmica eppure dolcissima "In Your Eyes", uno dei pezzi pregiati del disco, ma anche nella grandinata di percussioni e tastiere che ci inchioda a terra senza difesa, ad inzupparci goccia dopo goccia sotto l'infida pioggia di "Red Rain", un incubo così ben riuscito che non viene neanche voglia di scappare, oppure nel grido di dolore di "That Voice Again", sostenuto da poderose scariche di batteria e percussioni, un appello angoscioso che sembra provenire da tutto il cosiddetto Terzo Mondo. La voce di Peter Gabriel, così come sa interpretare alla perfezione questi lamenti selvaggi e senza speranza tipici di mondi lontani, sa anche comunicare la più moderata e a noi familiare rassegnazione di un disoccupato, protagonista della affascinante "Don't Give Up", un lento da brividi, senz'altro uno dei vertici dell'album. Alla veemente protesta di Gabriel "cresciuto forte in una terra orgogliosa" dove gli è stato fatto credere che "non avrebbe mai potuto fallire", si contrappone la voce da fatina buona di Kate Bush, che con saggezza tutta femminile consola il poveraccio ricordandogli quali sono le cose veramente importanti ("Non arrenderti... perché tu hai degli amici... perché tu hai noi" e così via). E' vero che il cinguettio sensuale di Kate Bush tirerebbe su di morale anche un catatonico, ma il valore del messaggio resta e la canzone, scritta in pieno thatcherismo, è drammaticamente attuale. Altro abisso di tristezza, e altro capolavoro: "Mercy Street". Percussioni sorde, un basso cupo e torbido come un mare notturno, un ossessionante triangolo da cima a fondo, ma soprattutto una melodia così emozionante da far venire prima la pelle d'oca, e subito dopo le lacrime. La storia di un'anima tormentata: solitudine, sogni infranti, fede come rifugio. Per anime molto sensibili, purché non si trovino in depressione.

Alla fine di un disco da incorniciare, ecco la breve ma intensa "We Do What We're Told": partenza timida, con qualche limpida nota sparsa, quindi progressione centrale da corale di musica sacra (un assaggio del futuro capolavoro "Passion" ?) e finale sfumato in una ventata di flauti. Creatività alle stelle, finezze in abbondanza, suono impeccabile, con il perentorio basso di Tony Levin in grande evidenza. Dateci ancora tanti dischi "commerciali" come questo.

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