Nel 1966 Aspen Magazine allegò alla rivista un Flexi disc con due brani composti da compositori emergenti.

Sul lato B c'era un pezzo strumentale dei Velvet Undergorund, “Loop”: un bel feedbeck chitarristico eseguito da John Cale, ancora rapito da La Monte Young e dalla musica eterna o magari da The Wolfman di Robert Ashley, un artista un po' dimenticato anche da chi non dimentica tanto. Per approfondire Ashley, vi rimando a un bel documentario di Greenaway: “Four american composers”.

Probabilmente, Loop era una di quelle creazioni che non aveva trovato spazio nel disco banana; una di quelle fulminazioni dell'estro creativo, nate tra una session e una serata borderline alla Factory. L'ultima scanalatura del flexi è volutamente manomessa, per ripetere il solco finale di Loop all'infinito. Ci mancava solo che Velvet Underground & Nico finisse così, con “Loop” che ci raccontava l'eterno e potevamo chiuderla lì.

Sul lato A, invece, un pezzo chitarristico strumentale di Peter Walker, “White wind”.
Walker amava suonare la chitarra come un sitar: un suono più grave a fare da bordone e a seguire uno psichedelico incrocio tra Raga e Flamenco.

È il '66, bellezza. Anzi: è il '66, fratello: sintonizzati. Ça va sans dire: siamo nel mood cosmico, peyote, trip, lasciati andare, gli States entrati nel vivo del conflitto in Vietnam e quindi spogliamoci nudi e riconduciamoci alla terra. “You're in the cold land. You're in the black land”. L'avesse scritta Morrison, 'sta frase. E invece l'ha scritta Carducci, priva del fascino un po' suddito della stilosaggine anglofona.
E dopo aver impresso nelle menti, l'immagine di un Carducci anglofono e psichedelico, già leader dei Green Pomegranate, riecco Peter Walker, allievo di Ravi Shankar, così allievo di Shankar da rimanere quasi di sasso quando, un anno prima, George Harrison, anche lui allievo di Shankar, inserì un sitar all'interno di Rubber Soul.

Walker non trovava le parole adatte: la band delle scimmie urlatrici tredicenni, aveva ficcato un sitar nel nuovo album. Rese omaggio a Norwegian Wood, con una cover che si trova nell'album “Rainy day raga”. Mi piace pensare che questa cover, sconosciuta ai più, possa essere il primo chiaro riconoscimento ufficiale in quegli anni: la conferma che i baronetti non fossero giusto una quaterna di incantatori da hit parade, ma un gruppo formato da quattro signori della musica che ben figurano tra gli altisonanti nomi (alcuni a ragione, altri meno) dei manuali di Storia della Musica

Per chiudere il cerchio (del resto, tra bordoni e feedback, cos'altro potevo chiudere?), ho caricato un file che tosto allego, così composto:

  • White Wind

  • Loop

(e questo è il Flexi)

  • Norwegian Wood (Peter Walker cover)

E due omaggi miscelati da me:

  • White Wind Loop (sovrapposizione delle tracce del flexi)

  • Norwegian Loop (coda finale).

E buon ascolto, qui. (Non chiedetemi il perché di quel ritrattino familiare con uno sfondo di lavatrici: potrei anche dare una spiegazione).

Nota curiosa: Sono passati cinquanta lunghi anni dalla pubblicazione di questo flexi. Esistevano realtà editoriali, capaci di proporre al proprio pubblico capolavori così.
Immagino i dialoghi:

- Che fai oggi, John?

- Sto immaginando la pubblicazione di un flexi che abbia come filo conduttore il bordone, il feedback; un nuovo, vecchio modo di intendere l'orizzontalità contemporanea.

Dopo aver fatto questo, la vita deve essere così appagante che te ne puoi pure andare affanculo in the cold land, baby John.

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