Ci sono film a tal punto interiorizzati che è difficile parlarne lucidamente. Può essere che uno si trovi qui a scrivere, abbia studiato Lettere, faccia il giornalista o il professore perché da ragazzo ha assistito attraverso uno schermo alle lezioni di John Keating. E allora rivedere vent'anni dopo quelle scene, assaporare quei dialoghi, questa volta non più come studente o ragazzo da educare, ma come docente, uomo che tenta faticosamente, si arrabatta per trasmettere una scintilla di poesia ai suoi allievi... Tutto questo assume i contorni di un rituale immutabile e inevitabile. Ma è un rituale che oggi rischia di perdere la sua magia, che richiede di ravvivarla nel vissuto di ognuno.

Un rito iniziatico per il quale le generazioni si tramandano, cercano di tramandarsi la sensibilità. E la fatica di vivere, e la necessità di farlo, bene. Nel modo migliore possibile, andando oltre le categorie preimpostate, gli schemi rigidi di un Jon Evans Pritchard, i voti, le consegne, i diagrammi e le rinunce imposte per un'acribia ingiustificabile di genitori o insegnanti. È la quintessenza della vita, dal mio punto di vista. Lo smascheramento di una società che anche nella scuola infonde (o per meglio dire, infondeva) sottotraccia un'esigenza performativa rigida, parametrabile, e dimentica(va) che quelle teste sono collegate a dei cuori, a un sentire unico e non classificabile, delle angustie o delle aspirazioni. Non sono calcolatrici deambulanti che devono stendere relazioni su esperimenti a getto continuo.

Una poetica del vivere, un'epica della devianza dalla norma, come antidoto alle fatiche del rigore. La sua scoperta credo sia stata essenziale per generazioni come la mia, una palingenesi per cui negli anni del liceo, tra un compito di chimica e uno di fisica, ti rendevi conto che il tuo cuore batteva altrove. Allora finivi tutto quanto, portavi a compimento i tuoi studi con la fretta di chi sta risalendo dall'apnea. E con il rigore infuso affrontavi il tuo percorso umanistico, la scorza dura fuori e il cuore palpitante all'interno, assetato di vita. Succosa vita.

La fallacia di tutto questo sta nelle differenze tra un collegio del Vermont negli anni '50 e le andature della scuola di oggi, in Italia. Le generazioni di adolescenti che vivono attualmente questa fase decisiva potrebbero non capire più di tanto (o dare per scontata) la liberazione nelle parole di John Keating, perché prima non hanno vissuto il rigore di un preside Nolan. Il pericolo allora è quello suggerito dal collega McAllister: “Corre un brutto rischio incoraggiandoli a diventare artisti, John. Quando capiranno di non essere Rembrandt, Shakespeare o Mozart. La odieranno per questo”. Oggi siamo su un crinale molto simile, e se il personaggio di Robin Williams ribatteva: “Non parliamo di artisti, parliamo di liberi pensatori”, oggi la questione decisiva è quella esattamente opposta: troppa libertà di pensiero senza le conoscenze a sostegno di tale libertà.

Se la forza vivificatrice di queste vicende può risultare smorzata quando declinata nell'attuale contesto (ovviamente con le sue eccezioni, impensabile stabilire un giudizio onnicomprensivo), non lo sono le storie, i ritratti, le parole cesellate nella costruzione di un affetto. E in questo l'opera di Weir, in particolare nel lavoro dello sceneggiatore Tom Schulman, ha un vigore e un'espressività che mettono i brividi. Quei volti, quei giovani attori che sembrano nati per queste parti, gli sguardi di Robin Williams, l'atmosfera densa che si respira, persino gli stacchi con riprese ambientali: tutto è a suo posto, un poema visivo dalle movenze classiche, imperfettibili. Anche nelle facezie, nei pruriti, persino nelle immagini osé questo film è cristallizzato in un equilibrio miracoloso, ha la leggerezza e la profondità di un'opera indimenticabile.

Un equilibrio che rischia di essere ingenuo a volte, eccessivamente drammatico in altre, ma che si tiene sempre al di qua della soglia e riesce a contemperare le iperboli sognanti con gli abissi spaventosi che si aprono. Lo stile misurato e il montaggio a tratti reticente perfezionano alcuni spigoli forse eccessivi. Non mostrare sempre tutto è utile a fortificare lo spirito educativo del lavoro, che non è certamente l'unico da evidenziare. Anzi, proprio la tragicità della storia di Neil Perry è utile a smorzare questo rischio da lezioncina preconfezionata, per quanto deviante.

Anzi, la forza di questa visione sta nello stretto e costante rapporto con la sua antitesi, che non è tanto il rigore del preside (eccessivo), ma il disincanto di un prof McAllister, che è bonario ma in fin dei conti sottovaluta il sentire dei suoi ragazzi. “Non la facevo così cinico”. Sarebbe però fuorviante sostenere che il film intenda dare un vero monito: la strada individuata da Keating è seducente, e gli effetti collaterali non sono figli di sue colpe, ma delle rigidità del sistema. In questo, anzi, è un po' troppo netto nel distinguere tra figure ispiratrici e figure castranti.

L'attimo fuggente non educa a qualcosa di preciso, smuove le acque torbide e pesanti dei cuori impauriti, ravviva le scintille tremule dei ragazzi troppo sensibili per osare. È un movimento che risuona negli abissi interiori per smascherare le ipocrisie, i tanti falsi miti, per scardinare dal binario della linearità tante vite così accuratamente impostate verso scopi che forse non sono davvero importanti. Presuppone entusiasmo, ispirazione, e forse per questo è un film perfettamente inattuale.

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