"L'essenza dell'arte cinematografica è proprio il tempo, e dopo questo film non credo di poter raggiungere una purezza simile” P. Groning

E’ sempre stata difficile e pressoché impossibile l’idea di “trasmettere il silenzio e la pace interiore” al cinema. Quel senso di beatitudine che si riesce a percepire con un lavoro certosino su se stessi e che si avverte solo in certi periodi della propria vita, a ridosso magari di certe esperienze laceranti o emotivamente toccanti, tipo la morte di un parente prossimo o la separazione da un amore.
Quel fluttuare intenso e incerto dell’anima che esige appunto, solo un grande silenzio non dissimile o troppo lontano da quello che si respira in questo film “Il Grande Silenzio” (2005) del regista tedesco Philip Gröning che di pazienza e calma ne ha avuta a buon rendere.

Sedici (16!) sono gli anni di anticamera che ha dovuto fare prima di avere i permessi e l’autorizzazione ad accedere alla Grande Chartreuse, antico monastero situato sulle montagne nei pressi Grenoble, in Francia e poter così filmare la vita rigorosa e austera dei monaci di clausura, che se ne stanno praticamente in sacro silenzio da mattina a sera per interi periodi dell’anno.
Quasi sei mesi il periodo di riprese dentro le mura del monastero (usando telecamere ad altissima resa qualitativa come la High Definition, impiegata principalmente da George Lucas) con km di pellicola girata a riprendere e carpire, di fatto, il mistero ancestrale delle regole d’oro di questa comunità fuori dal tempo.
Quasi quattro mesi il periodo di montaggio e il mixaggio sonoro per raggiungere il perfetto equilibrio tra le immagini e l’acustica in un film/documentario fatto praticamente di niente e che ci porta mano a mano ad abbandonare tutto e a riscoprire il Grande Vuoto che ci gira intorno per tentare di riallacciare il collegamento con quella zona pulsante e profonda nascosta in ognuno di noi.
Un film sussurrato quindi, fatto in punta di piedi, rispettoso dei luoghi che ci vuole descrivere e che si fa monaco anch’esso nel rispettare le rigide regole di questo posto lontano anni luce dal mondo e dalla società civile.

Rarissima la colonna sonora, qui i veri protagonisti sono gli sguardi soavi dei frati, le piccole cose apparentemente senza importanza, i muri scrostati, il suono lontano delle campane, la preghiera nel refertorio comune, il tutto condito da una lentezza irreale che scandisce inesorabile i minuti dilatandoli fuori da ogni cognizione di spazio e tempo.

Certo un film sicuramente impegnativo e non facile da accettare (dura quasi 3 ore!) che in sala procurò molte defezioni e abbandoni dopo appena 20 minuti, ma un film che a suo modo incanta nel suo essere fuori da ogni cosa già vista e un film doveroso verso la parte più intima e oserei dire “sacra” del nostro essere che troppe volte viene emarginata e bistrattata dalla nostra superficialità e dal nostro volersi concentrare su cose prevalentemente futili, d’effetto e che gratificano esclusivamente il nostro Ego materiale, vera “droga” del nostro vivere esasperato e, per questo, perennemente insoddisfatto.

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