Oltre il muro della musica, oltre i cinque sensi verso un’esperienza globale.

“Is there anybody out there The Wall live 1980 – 81” è molto di più d’ una semplice rappresentazione sonora. The Wall live è il manifesto d’ una spettacolare quanto gigantesca seduta psicanalitica collettiva con i suoi segni, i suoi simboli e le sue identità, riprodotta dai Pink Floyd appena 29 volte tra l’ 80 e l’ 81 in tre soli paesi: Germania, Stati Uniti ed Inghilterra. E così, in particolare, nel “pianeta” allestito all’ Eals Court di Londra (da cui sono tratti i due cd in questione) l’incubo disegnato da Waters prende forme figurative: sul palco volteggiano stendardi simil – nazisti, si odono stridori urbani, echi Brechtiani e ordini da Gestapo, camminano martelli incrociati, troneggiano iconografie dei nostri odi/amori nei panni di istituzioni comuni; la madre e l’ insegnante animati del disegnatore Gerard Scarfe. Ne scaturisce un’opera dalle dimensioni apocalittiche e colossali (l’apparato scenico della rappresentazione live di The Wall è stato forse il più sfarzoso e magniloquente di tutti i tempi, con un muro di 420 mattoni costruito da una squadra di operai che lentamente sottraeva la band alla vista del pubblico) con una esasperazione orchestrale che tenta la via più claustrofobica possibile per tradurre in musica la paranoia esistenziale delle tre “figlie” di Waters: alienazione, ossessione ed incomunicabilità. Seppur limitati dalla sola musica (non sono certo se sia stato pubblicato anche il dvd del live in questione) questi due cd proiettano mente e riflessioni dell’ascoltatore sulle infinite potenzialità della comunicazione di massa e sull’ effetto detonatore di una cassa di risonanza così gigantesca tanto da assorbire gli incubi di legioni e legioni di fans in tutto il mondo. Forse questo è uno dei pochi casi in cui il conformismo dei gusti trova la sua giustificazione più recondita in un substrato musicale e metamusicale: la versione studio di The Wall ha totalizzato oltre 23 milioni di copie, con un incremento di 2571 all’ anno (ricordiamo che è un doppio vinile/cd; io personalmente e maniacalmente lo possiedo in entrambe le vesti), e questo ovviamente non a caso perché, come ho anticipato prima, The Wall è l’ iconografia musicale del frammento più oscuro e funereo dell’ esistenza; l’emersione (non solo) sonora della psiche turbata ed ossessionata di Waters, così poco diversa, a ben vedere, dai labirinti psichici di ciascun animale umano...

Guardando al lato musicale, invece, è praticamente impossibile isolare una canzone sulle altre: certamente in sede live “ Confortably nunb” , nonostante la sua immutata bellezza, suona diversamente dalla versione in studio, non foss’ altro per l’ assolo di Gilmour, (per sua ammissione il più bello mai scritto nei Pink. . e come ha ragione… ) che qui, sebbene risulti decisamente più vivo e magnetico, sembra, tuttavia, scevro d’ una effettiva incidenza emozionale (l’assolo versione “Delicate Sound Of thunder” o versione “ Pulse” è decisamente superiore). Oppure “ Run like hell” (dove Waters inneggia a tutte le persone deboli “ . . all the weak people in the audience. . ” ) che da questo punto in poi diverrà il cavallo di battaglia conclusivo del trittico Gilmour, Wright e Mason. Perde un po’ "The Trial" per la mancanza di effetti sonori vocali (in studio si distinguono decisamente meglio le differenti voci del maestro, della madre ed infine del giudice). Altre canzoni oserei dire sono addirittura arrangiate meglio di The Wall in studio; penso a “The Thin Ice” dove il canto Gilmour è molto più sentito e passionale od “Another Brick In The Wall part. III” qui davvero più ruggente. Ci sono poi due songs che nella versione originale latitano (perché scartate all’ultimo momento): “What Shall We Do Now” e “The Last Few Bricks” ; la prima è una canzone abbastanza corta che erompe dopo gli stridori della claustrofobia di Empty spaces; si tratta d’ un brevissimo pezzo molto hard rock, ma sempre nell’ accezione Watersiana. “The Last Few Bricks” è, invece, una sorta di “ medley” o collage sonoro di 3 minuti, mutuato da esigenze sceniche: l’ ultimazione del muro da parte degli operai durante la conclusione della prima parte dello show.

La band è manifestamente succube dell’ egoarchia stilistica ed intepretativa di Waters; del resto l’ ideazione sia del concept che della sua rappresentazione può dirsi praticamente opera sua; l’ apporto di Gilmour, a livello compositivo limitato a 3 soli brani (“Young Lust” , “Confortambly Numb” e “Run Like Hell” , questi ultimi due, ad onor del vero, sono tra i picchi più alti dell’ album), nella rappresentazione live si risolve (a suo dire. . ) “soltanto” nel ruolo di direttore musicale (e scusate se è poco. . ). Mi chiedo soltanto quanto (e come) sarebbe cambiato The Wall con una maggiore partecipazione compostiva di Dave; non dimentichiamo che, seppur poco dotato come doti concettuali, questo chitarrista ha costruito le melodie più belle dei Pink (cosa tra l’ altro evidente, oltre che nei classici come “ Wish you were here” anche nel quasi interamente suo “The division Bell” ). Per quanto riguarda gli altri due membri della band qui (e non solo qui. . ) c’ è poco da dire; Nik Mason, si sa, è un batterista senza infamia e senza lode e con poca fantasia e, questo qualcuno provi a contestarlo, di tutto quello che hanno fatto i Pink Floyd a lui può essere ascritto nulla più che un merito morale di membro. Tuttavia come sempre, l’estrema semplicità tecnica del buon Nik al cospetto di 2 partners come Waters e Gilmour non inficia l’ eccellenza del prodotto finale. Rick Wright, invece, come dirà nell’ intervista di uno dei due allegati blocket, compare più per dare l’ ultimo saluto ai fans (il suo dissidio con Waters aveva ormai raggiunto l’ acme. . ) che per convinzione partecipativa: infatti di li a poco ci sarà lo scisma all’ interno del gruppo ed il tastierista verrà destituito dalla “Roger Waters Band” in favore del più dotato (almeno tecnicamente) Michael Kamen che, oltre a suonare le keyboards, arrangerà anche il supporto orchestrale di quella controversa ed affascinante elegia funebre di “The final cut” .

L’artwork è curatissimo (sebbene la copertina a mio sommesso avviso poteva essere migliore); due libretti illustrativi con decine e decine di foto testimoni del live, ed in più commenti personali dei 4 membri, nonché degli altri “ corealizzatori” dell’ apocalittica rappresentazione. Insomma… questo doppio cd, seppur certamente animato da intenti commerciali (tra l’ altro ha un prezzo certamente non politico. . ) non deluderà i fan storici dei Pink Floyd, ma non deluderà nemmeno gli ammiratori più superficiali della band, perché The Wall, nel piccolo/grande microcosmo della rock progressivo/psichedelico è così affascinante da sembrare un diamante inquietante: la soggettività del bello trasmuta nel bello oggettivo. Perché, è vero, “Is There Anybody Out There” altro non è se non la riproposizione della speculazione mercantile sulle fobie umane, con tutti gli annessi trilli di telefoni e frammenti di dialogo. Però è una speculazione che emoziona sempre e comunque, bisogna ammetterlo; e questo basta per entusiasmare e convincere. Eppoi, ricordate che la storia è una spirale; lo testimonia il fatto che dopo 26 anni, quel muro non sia mai caduto, ed anzi ad ogni nuovo ascolto, con tutti i suoi orrendi simboli, l’ attrazione verso l’incubo rinasce…

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