1.) Intro, cioè “beside” the Pixies.

La miglior medicina contro l’hegelismo? I Pixies. Il miglior neurolettico contro i disturbi depressivi cronici? Sempre i Pixies di Boston, Massachusetts (quello “sputtanato” dai giovani Bee Gees nel ’67).

2.) La band, ovvero i fantastici quattro.

Black Fancis, voce e chitarra, leader indiscusso, all’anagrafe Charles Michael Kitridge Thompson IV; cosa vuol dire avere un frontman “ciccione” a dispetto delle mode… rivoluzione, sberleffo? Acuto come un’aquila e pingue come un grosso merlo. Canto urlato, sgraziato, urticante, esercita autentica brutalità nei ritornelli, finanche all’urlo bestiale, efferato e lancinante. Cagiona il bailamme proprio a partire dalle melodie più semplici e lineari. Il suo motto, con ogni probabilità, è “Deliro o son desto?”. Scrive tutte le canzoni. Si farà chiamare Frank Black.

Kim Deal, basso e seconda voce, nome d'arte Mrs. John Murphy. Bassista straordinaria, interessata ad Hüsker Dü e Peter, Paul and Mary; ha bellissime armonie vocali, una ninfa che fa da contraltare al declamare enfatico, tronfio, a volte serioso, più spesso folle ed atroce di Francis (non alienante, ma selvaggio e primitivo). Lei è il contrario di lui. L’alter ego vocale. Graziosa, abbacinante. Una amabile collegiale dal canto vagamente melenso e voluttuoso.

David Loverling, batterista talentuoso, a tempo pieno al servizio dell’impellenza, martellante, febbrile, sfrenato, fautore di una percussività al cardiopalmo, tra cadenze velocissime e tratti marziali.

Joey Santiago, chitarrista di origine filippina, ha introdotto Black al Punk e a Bowie. Cruciali per la band la sua elettricità, i suoi muri di suono distorto in movimento, le sue dinamiche alterne, le sue scariche adrenaliniche, la sua poetica disturbata, sferragliante e corriva. Alterna asperità avventate, a un sound allettante e persuasivo, privo di ridondanze e sempre avvincente. Ti seduce, lascia, riprende e porta nell’imprevedibilità e a volte nell’incompiutezza perfettamente rifinita. È sempre spiazzante, di conseguenza sempre nuovo.

3.) La Musica, ossia il nuovo “Pixiessound”.

Riferimenti? Velvet Underground, Stooges, Neil Young, Pere Ubu, Violent Femmes, Gun Club, They Might Be Giants (per lo humor) e i numi tutelary, Hüsker Dü e Peter, Paul and Mary, che ne hanno propiziato la nascita e la vaccinazione. Ma i Pixies sono molto altro. Oltre e lontano.

Fautori di un rock abrasivo, selvaggio, anarchico, scandito da canzoni brevi, complesse e accattivanti, piene di elettricità, ritmo e pulsazioni e naturalmente convulsive. “Canicole stampe sopra scalcinati muri” di suono distorto. Ogni volta che le riascolti, la loro freschezza irriducibile ti fa sembrare che sia la prima volta e la canzone nuova di conio. Tocca lasciarsi raggiungere nelle viscere e farsi muovere non in sogni metafisici, ma nella veglia consapevole, con energia e slancio vitale, che non si asciugano mai, né deperiscono. Ti contagiano squisitamente col loro caos ordinato ma sfuggente, un elisir di eterna giovinezza rock che scorre linfatico ed accendente ed, è certo, rallegrante. Il Rock è spesso scuro, grigio, ossianico, doloroso. Qui affatto: gioia e calore non fanno mai difetto.

La band ci offre canzoni irregolari, imprevedibili, scomposte, spurie. Ogni attesa è vanificata, ogni dinamica sfuggente (vedi i loro “stop and go” che non hanno eguali, in virtù dell’anomalia di fondo che li rende difficili da cogliere e presagire). L’arte compiutamente incompiuta, dai contorni incerti, dai contrasti forti, messi lì apparentemente a caso, espressi a metà, con evidenza però infantile e genio. Così è per le melodie fischiettabili, amene, affabili, per i ritornelli suggestivi ed irresistibili. E poi, subito dopo, o nell’istante in cui cerchi di farle tue, quelle, come questi, deragliano improvvisamente nel frastuono per risalire in fretta, o correre in perfetta simmetria, o imperfetta disuguaglianza, con le distorsioni, in una sfida accanita, laconica, stringata, e sempre d’esito pari. Musica che spiazza incessantemente, infaticabilmente, sempre sopra le righe, che mai si riesce a prevedere o concepire. Di molte dimensioni, di infiniti riflessi. C’è il Pop e la sua stessa avversione, l’eversione della pop song e la sovversione sospetta. La canzone che raramente supera i tre minuti, ridotta ai minimi termini, viene dilatata nella velocità, nel grido primigenio, nello strepito. Qui però non ci sono forzature, si è fedeli all’idea che, chi vada contro le proprie inclinazioni, raddoppi soltanto il suo difetto.

Un elogio della follia? Sì, ma di una follia multiforme. che redime la follia stessa e le assegna un ruolo erasmiano nella Rock Music. Più o meno. La sana pazzia che, esegesi alla mano, avrebbe dovuto salvare e redimere il Post-Punk, dacché Ian Curtis, novello Morrison, aveva tracciato la sua ferita indelebile, un’impronta fatale, facendo della sua angoscia, una volta in più, una malattia mortale. Provvidenziali, i folletti di Boston ridestarono la “scena” fine anni ottanta, e tuttavia senza prendersi troppo sul serio, con autoironia. Niente fu più lo stesso. Propugnarono, così, una salvezza istintiva, viscerale. Urgente. Retaggio della formazione pentecostale di Black Francis? Esistenzialismo dialettico? Forza selvaggia del Rock? Boh? Dove massimo è il rischio di perdersi, massimamente emergono le forze che salvano. “No depression”. Nessun “tutto il reale è razionale e tutto il razionale è reale”. Ma “Rock Music”. Popular? Garagistica? Di quella che riempie le giornate, le ore, i minuti di senso, di felicità e di cani andalusi. Penso si tratti di questo.

Quello che è il nuovo idioma creato dai Pixies. Un nuovo genere, non solo Punk, né solo Rock, ma totalmente, integralmente Pixies. Chitarre spigolose, stridenti, linee di basso regolari, batteria incalzante, voce nevrotica, testi bizzarri, tra entusiasmo e schizofrenia, istintività e potenza non surrogabile. Prontezza, spontaneità e qualche dubbio. Un Pop chitarristico diretto, fantasioso e festaiolo. Racchiuso in piccole canzoni fulminanti, coincise, irregolari. Punk + Power Pop. O Freak Rock = melodia Pop caramellosa + frenesia Punk ed ancora addizioni di Noise e di Surf. Per pezzi rumorosi, caotici, apparentemente inconclusi, ma catartici, a loro modo. Un Rock veramente, liberamente alternativo. Riformularono, rinnovarono il linguaggio del Garage Rock. Hardcore punk, Cow-punk, un po’ di Folk e Acid Rock, e quant’altro. Stiparono, come nessuno prima, linee Metal e Hard Rock dentro esili strutture armoniche di power pop. Per un Sound unico, magmatico, incandescente. Parimenti orecchiabile e dissonante. accessibile e complesso. Easy punk ed Hardcore. Fuori dal tempo, han segnato ed immortalato l’altro grande paradigma della musica indipendente, quello parallelo al Noise dei Sonic Youth. Quello acceso di creatività randagia, humor ed eccentricità. Scanzonati ed intellettuali, di basso e alto profilo al contempo. Sicuri e spontanei. I prodromi del Grunge e del Brit Pop che dovranno venire!

Tutto questo “arrosto” ne fa il più importante tra i gruppi degli anni 80, almeno per il Rock alternativo.

4.) I Testi, cioè i non testi.

I testi parte importante del progetto, sono privi di logica, visionari e surrealisti. Mai descrittivi, si reggono su accostamenti imprevedibili, iperreali, non tanto votati all’ermetismo, quanto poggianti sull’immediatezza fanciullesca e il riferimento colto, o presunto tale. Giocano ferinamente col detto e col non detto (del genere “su ciò di cui non si può teoreticamente parlare è meglio tacere”), in un’arte dello sbozzare più che dello scolpire, dell’ accennare o rimandare, più che dell’argomentare o narrare. Non c’è velleità poetica, ma un tracciare l’incompiuto e un inneggiare all’incompiutezza stessa. La parola esplode più nella sua musicalità che nel suo senso, anzi quest’ultimo verrà dopo o non verrà affatto (come Godot). Così si spiega allora il ricorso fantomatico alla lingua “Spanglish”. L’immaginario di riferimento è il college, un po’ Animal House, un po’ cineforum e cenacolo poetico per secchioni sentimentali. Ecco allora Luis Bunuel e Salvador Dalì, ma anche Rimbaud, Baudelaire, Breton, Apollinaire. E, in definitiva, l’ironia o la follia, a costruire una satira con un qualche intento, o esito, etico. Certamente surreale.

5.) Gli album e i b-side. Ovvero 1987-1991.

Già eccezionale l’Ep “Come On Pilgrim”. Surfer Rosa, un album intenso, duro, compatto, con coesione narrativa e fantasia straripante al potere e dispiegata in ogni singolo pezzo. Ma i Pixies non si fermano mai, hanno più dimensioni. Così Dolittle, più sfacciatamente melodico, egualmente ferino, risulta essere un altro capolavoro. Entrambi impervi, incontrastabili, universali. Bossanova, più sul Surf Rock che sul Punk, si differenzia dei predecessori. In questo risiede la sua novità e bellezza splendente, che sa contemplare anche la quiete. Armonie via via meno eccentriche, più lineari, con una maggior attenzione agli arrangiamenti e alle melodie. A ben vedere è il terzo capolavoro. Tromp Le Monde sfrigola ancora bene, con qualche rediviva sfrontatezza Noise. Ma, finalmente, eccoci giunti ai lati B di sette singoli su otto, inanellati tra il 1988 ed il 1991.

6.) Ah, sì! The Complete B Sides (4AD, 2001)

Si tratta di una raccolta dei “lati opposti” dei 45 giri usciti durante la prima incarnazione della band di Boston, stampata soltanto negli UK e, per oscuri motivi legali, indisponibile negli USA. Questa compilation evidenzia in primis, ed una volta in più, come tutti e quattro i nostri fossero indispensabili ed essenziali per il “Pixiessound” già abbondantemente descritto. Da qui provengono ancora scariche di adrenalina, racchiuse in pezzi spigolosi, suggestivi, e, spesso, indimenticabili. Se l’insieme “risuona” della grandezza degli Lp di riferimento, e non ha unità narrativa, se non quella data dalla chiave diacronica, non mancano certo la tempra e la tensione. Si palesa, allora, come una buona pietra di paragone rispetto alla produzione diretta, utile per appassionati e simpatizzanti. Inculca la domanda inevitabile su quali brani sarebbero potuti appartenere alle tracklist delle corrispettive “lunghe distanze”.

Si inizia subito bene con "River Euphrates" , un re-recording dal singolo di “Gigantic”. Bel basso rotolante, batteria incisiva profusa in un martellante boogie, la chitarra abrasiva di Santiago, poetica, i coretti angelici di Kim contro il canto nevrotico di Black Francis, che al ritornello urla selvaggiamente, più ferocemente che in Surfer.

"Vamos" in una accattivante performance Live dell’88, più punk che rock, esalta lo spanglish.

"In Heaven (Lady in the Radiator Song)", ancora Live, ripresa dall’originale colonna sonora di “Headriser”. Lì si presentava cupa ed elettronica, con la voce da musa malata e sensuale di Debbie Gibson e la bellissima progressione di accordi di Peter Ivers (sul testo dello stesso David Lynch): Qui viene trasfigurata progressivamente in una sorta di voodoobilly deflagrante.

"Wave of Mutilation (UK Surf)" è rallentata rispetto alla versione di Dolittle, dilatata, e godibile anche in questa veste.

"Into the White", Lato B di “Here’s Come My Man” finalmente assegna il “lead vocalism” alla Deal. Sentir cantare lei, così immanentemente suadente, è una esperienza infervorante. La batteria è stratosferica, la chitarra acustica si allea e duetta con gli sfregi prepotenti dell’elettrica, che, poi, Joy grattugia con stridore garrulo nel chorus. Un brano sopraffino, intrigante e volubile.

E veniamo, adesso, a due capolavori immani. "The Thing" è il remix della coda, staccata e resa autonoma, di, e da, The Happening, contenuta in “Bossanova”: una outro section con “favola messianica ambientata a Las Vegas”. Stupenda in questa foggia, unica ed imperdibile. Fa il parallelo, almeno nel mio immaginario musicale, con la intro di Clampdown dei Clash, e sono le migliori di sempre, l’incipit e il finale, quel qualcosa che esula dal brano su cui si innestano, che lo porta radicalmente oltre. In una fuga ben temperata. Ascoltate le incredibili sgommate di chitarra di Santiago che si stagliano sul tappeto pulsante iniziale (che non c’è su “Bossanova”). Esso viene aperto, in successione, dalla batteria ficcante, dal basso rotondeggiante (e largo), da una percussività pianistica Honky Tonk, che percorre ed accompagna tutto il brano. Un must have concentrato in 1’58’’. Black la canta in controluce, inusualmente serafico.

L’altro capitale, umano e divino al contempo, è il Lato B di “Velouria”, "Winterlong"; sì, di Neil Young. Già bellissima solo come scelta. Di gran levatura. Attesta la capacità e l’arte dei nostri di far proprie le canzoni altrui, interamente, integralmente. Francis e Deal cantano in duetto con ironia flemmatica. Più velocità, più elettricità, lirismo controverso ed irregolare rispetto al Neil, sia live che studio, e ti sembra di tenere insieme, in uno sguardo riflessivo, le pagine della tua vita, nell’imminenza di una catarsi. E non puoi non sorridere a quel canto bimbesco di lei e di lui, quasi tranquillo, di graziosa semplicità e controllata civetteria, fino all’alternanza, ad libitum, nell’attraente finale. Non puoi non muoverti seguendo la chitarra che perlustra con fremito tutti i passaggi, che febbrilmente staglia ogni cadenza. Un apice espressivo questa ballata meno violenta del solito. Si può far senza?

7.) Una conclusione.

Le scimmie a inchiostri metallici e i cani andalusi, ma anche la manta birostris come attesta questa “B Side Story”, hanno rimpiazzato il coniglio di Alice; alla fine degli anni ottanta l’Alternative americano ha trovato i suoi nuovi eroi: i più beceri, i più adorabili... di sempre! È ovvio, amo e sostengo questa band.

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