Sapete che, ormai, scendo dalla montagna giusto due o tre volte all'anno. Per il nuovo di Polly, ovviamente, mi corre l'obbligo. E la notizia non sta tanto nel fatto che io cerchi di mettere assieme qualche pensiero decente, ma che il suo nuovo disco mi sembri essere piuttosto buono. Anzi, fottutamente buono.

Naturalmente se n'è fregata altamente delle mie modeste elucubrazioni, ha proseguito nella strada intimista intrapresa negli ultimi anni, ma spostandosi e cercando un nuovo centro. Oddio, quando avevo letto che le nuove canzoni le stava scrivendo con l'autoharp stavo già in depressione cosmica. Infine, però, ne è uscito un disco di chitarre. Certo non quelle che vorrei, non quelle registrate da Albini, ma, almeno, da combat-folk. Lei ha citato i Pogues tra le prime influenze, ma non vedo gli ultimi Clash e Joe Strummer come parenti lontani. E non solo per quel "Let England Shake" che non può non rimandare a "This Is England".

Sì, un disco molto inglese, non solo per l'umore (è stato registrato in una chiesa nel Dorset), ma soprattutto per le liriche, a suo dire composte ben prima di trovare le melodie. Una cruda e spietata analisi dell'impero britannico, partendo dalla battaglia di Gallipoli, metafora delle guerre odierne, Afghanistan ed Iraq. (La solita digressione, pure fastidiosamente retorica: ma qui in Italia, senza tornare all'epoca dei cantautori, non è possibile che qualche cantante si occupi di temi un po' più alti che non siano quelli offerti dallo squallore attuale?).

Conseguentemente un disco immediatamente adorato dalla stampa d'albione (si va dai dieci decimi di NME alle cinque stelle del Guardian), e che per noi italioti risulterà invece non comprensibile appieno, al di là della conoscenza che abbiamo della lingua. Ma, non credo proprio che, in questo caso, si possa prescindere da una attenta analisi dei testi, politici come da tempo non si sentiva, intrisi di sangue, carne e corpi che vanno a morire.

La parte musicale, come detto, non è esattamente la mia "cup of tea" (in definitiva vi è un solo pezzo che mi conquista totalmente, "Bitter Branches"), ma quando ci si trova davanti ad un'artista del calibro della signora Harvey, l'opera va valutata nella sua completezza, non certo nei dettagli. Ed il lavoro si vede tutto: nella composizione, negli arrangiamenti, nella registrazione. Nella solita compagnia di amici fidati: John Parish, Mick Harvey, Flood alla produzione. In definitiva, nel non rimanere ferma, passati i quarant'anni, ma ancora vogliosa di esplorare il mondo musicale in ogni sua sfaccettatura.

E tutto sommato fa piacere che dopo l'idiozia di Brian Eno su Anna Calvi ("The biggest thing since Patti Smith", come se Polly non fosse mai esistita), la vecchia leonessa torni a ruggire con tutta la sua grazia e ferocia. A mio parere, 2-0 secco e ci rivediamo tra un paio di campionati.

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