La squisita e appagante eccellenza del pop che infestò senza scampo tutti gli anni ottanta, sospinto incessantemente dalla pletorica affermazione della famigerata usanza dei video clip, non l’ho per certo trovata nei fedifraghi Genesis, men che mai negli stonati Duran Duran o nei saccarinosi Spandau Ballet, ancor di meno nel talentuoso ma sovrastimato Michael Jackson, nell’afono Paul Young o nei tenebrosi Depeche Mode, o ancora nello "one hit wonder" Lionel Richie, nella stridula Cindy Lauper, nella Gabrielliana e impegnativa Kate Bush, nel fluido ma monodimensionale Huey Lewis coi suoi News, nei pompatissimi Wham… e chi più ne ha più né metta.
Le buone vibrazioni ed i buoni ricordi sono stati invece, nel mio caso, appannaggio dei Tears for Fears, della bella stagione synth/pop/soul di Daryl Hall & John Oates, dell’atmosferico ondivagare dei Talk Talk, di alcune uscite dell’one man band Howard Jones ed infine di questi “Germogli Prefabbricati”, ad onta della sicumera notevole del loro leader Paddy McAloon, un tizio che è andato in giro per anni a dire che era il migliore ma… aveva ragione!
Ora ha smesso da tempo di esternare di ego... Invecchiato moltissimo da pesanti acciacchi (quasi cieco, mezzo sordo), dimostra molto di più dei suoi sessant’anni scarsi e fa sostanzialmente gli affari suoi con moglie e tre figli, a casa sua nel nord dell’Inghilterra. Qui però siamo nel 1997 e il talentuoso cantante, chitarrista e songwriter è a pieno regime, ancora affiancato dalla morosa di allora Wendy Smith, come sempre impegnata a doppiare alla perfezione buona parte dei cantati, sospirandovi un’ottava sopra e all’unisono… questa un’assoluta caratterizzazione della proposta musicale della formazione.
Wendy si separerà sia sentimentalmente che professionalmente da Paddy successivamente a quest’album, riducendo in pratica i Prefab Sprout ad un duo con l’altro McAloon, il fratello bassista Martin orecchie-a-sventola. Già in queste registrazioni non vi è più un batterista fisso nel gruppo e si prende atto della fine dei rapporti anche con Thomas Dolby, il genietto dei sintetizzatori che tanta parte aveva avuto nel lancio e nel successo di questa band. Dolby viene comunque calorosamente ringraziato nelle note di copertina, del resto Paddy mostra diffusamente nel corso del disco di avere imparato alla perfezione le lezioni del maestro: ora che anche le tastiere sono nelle sue mani, esse risultano sontuosamente eleganti, profonde, indovinate, ricolme di classe come e più di sempre.
Il disco è particolarmente soft e tranquillo… non si sgarra praticamente mai dalla ballata lenta e rigogliosa, arrangiata da urlo, cantata come meglio non si potrebbe dal timbro preciso e ricco del nostro eroe, un misto di larga estensione (verso le note basse), perfetta intonazione, particolare personalità e, sopra ogni altra cosa, un’abilità quasi mefistofelica di schioccare perfettamente le consonanti siano esse labiali, parietali od esplosive, rendendo in questa maniera i testi in un inglese perfetto e con un’intellegibilità degna di essere resa obbligatoria nelle scuole come supporto didattico, come la Divina Commedia e i Promessi Sposi qui da noi. In quanto al saper schioccare per bene le parole, non ce n’è per nessuno: attraverso la virtuosa lingua del McAloon l’ascolto dell’idioma inglese diviene una specie di piacere fisico.
Le cose migliori del lavoro che mi preme segnalare partono dall’iniziale “Electric Guitars”, scandita da un arpeggio scolpito e di sicuro effetto, così come dal canto esteso su due ottave piene. Poi “Life is a Miracle” che racconta un’ovvia verità laica: “La vita è un miracolo e allora conviene dare tutto il nostro meglio, prima che venga il tempo del riposo” e subito dopo “Anne Marie” che ha un inizio straniante in contrappunto, quasi a’la Gentle Giant per poi proseguire con arrangiamenti sontuosi, caleidoscopici, psichedelici.
Ma l’album mantiene le cose migliori per il trittico finale. “The Fifth Horseman” è niente di meno che uno dei capolavori di questa pop band britannica, sin dal prologo di organo più un’armonica suonata da un ospite: da brividi. I quattro horsemen della biblica Apocalisse diventano in questa sede cinque, poiché Paddy vi aggiunge l’Amore… e pure un assoletto di chitarra, cosa rara per gli Sprout.
La penultima song s’intitola invece “Weightless” ed è dedicata a… Yuri Gagarin! Tutto avrei pensato meno che l’uso della parola Gagarin in un testo anglosassone, ma l’immagine retorica che regge le liriche è proprio quella di un lui che, grazie all’amore, resta sospeso fra le stelle… come Yuri Gagarin! Uno spasso.
L’opera si chiude con la canzone eponima, la quale celebra una casa sulle colline senza cemento e senza legno, fatta di amore e rispetto: messaggi romantici ed edificanti resi attraverso accordi magnifici, suoni sontuosi, canto esteso e sorprendente, per quanto si possa essere preparati alle spiccate capacità motiviche dell’ispirato capobanda.
Classe da vendere, personalità ed artigianale abilità rendono senza tempo la mia stima per questa luminosa realtà musicale d’oltre Manica.
Carico i commenti... con calma