Forse che la parola "pop", a torto e tristemente inflazionata dal music business, reclami giustizia e una degna collocazione nel magmatico universo della canzone contemporanea? Di sicuro essa, nata con un duplice handicap - la sua forte connotazione sociologica e un pericoloso profumo di leggerezza - andrebbe un po' disambiguata, riposizionata, incoraggiata. E non a mortificazione e condanna di un concetto, quello appunto di "leggero", che è lungi dall'essere nemico del popolo o vergogna per l'artista; niente come le "canzonette", alla fin fine, ci comunica meglio certe verità.
L'orecchio poco distratto noterà come a questo compito sia già stato assolto non molti anni fa, quando a un tratto, nel suo cammino verso la liberazione, il pop riuscì a spingersi oltre i confini che lo avevano frustrato sin dalla nascita, a oltrepassare il limite entro il quale il suo messaggio non avrebbe potuto farsi davvero universale.

Personaggio ben strano, il deus ex-machina di questa silenziosa rivoluzione copernicana: da un lato, un passato da benzinaio e una mai troppo sviscerata vocazione a diventare prete, uno dei tanti volti pallidi specchiati nella pioggia perenne delle terre del Nord; dall'altro, l'amore incondizionato per il musical americano, protagonista di infiniti sogni che presto sarebbero "implosi in uno solo". Fin dagli esordi, e senza tentennamenti almeno fino al '90, Paddy McAloon ha posto il suo sogno alle dipendenze di un progetto tanto concreto quanto singolarmente metafisico: regalare al pop una dignità "altra", cospargendo un intero decennio di semi prefabbricati che avrebbero visto frutti acerbi (ma quanto intensi...) nel difficile, inarrivato "free pop" di "Swoon" (1983), piante già mature con l'elegiaco e sottilmente irrequieto "Steve McQueen" (1985) o l'acuto e bonariamente ironico "From Langley Park To Memphis" (1988).
Il terreno era fertile, ricco di doni il piatto: chi si sarebbe più dimenticato la delicata poesia e i suoni eterei, al limite dell'impalpabilità, di una "Elegance", la rabbia e l'impotenza sussurrate in quei capolavori d'equilibrio che erano e rimangono "Bonny" o "Goodbye Lucille N°1", Bacharach che passeggia per i campi di Newcastle ("Moving The River", "Cruel", "Horsin' Around"), magari a braccetto con Proust ("I Remember That")? E abbozzare un ringraziamento per "When Love Breaks Down" è operazione quasi banale.

Ma ad apertura della nuova decade, "Jordan: The Comeback" oltrepassa il segno: sintesi perfetta e irraggiungibile di un percorso che per qualcuno non ha pari nell'era post-Beatles. Un progetto dalla portata musicale vastissima, un calderone dove le definizioni si perdono e perdono qualsiasi senso: è il pop al suo massimo livello di trascendenza, il punto di non ritorno dove "easy listening" e musica "colta" si fondono e confondono, ponendosi al servizio di una narrazione dal sapore biblico.
Nessun intento predicatorio, però, bagna la penna di McAloon: laddove il riferimento al sacro fa capolino (l'ultima sezione del disco, oltre alla title-track), esso è piegato alle esigenze di un discorso dai connotati fortemente umanistici: "Michael", "Mercy", la splendida "One Of The Broken" altro non sono se non un'icastica fenomenologia dell'errore e della debolezza umana. E tutto terreno è il sogno di un infinito medley dove sofisticato pop d'avanguardia e reminiscenze di Broadway non hanno più confini: nascono gemme come "Paris Smith", "The Ice Maiden", "The Wedding March", l'ispirata promessa di "All The World Loves Lovers". Se l'incedere di "Wild Horses" ha un che di spiritualmente sensuale, "We Let The Stars Go" è la quintessenza della nostalgia in musica, mentre superbo è in "Moondog" (dove tra l'altro ritorna, ora più sottile, la tematica elvisiana di "The King Of Rock'n'Roll") l'alternarsi di melodia spaziale e perfezione ritmica.
E così via, in un vortice di infinite citazioni che non ha senso più di tanto scandagliare: ci troviamo di fronte a una settantina di minuti di musica pura, non una virgola fuori posto, nessuna concessione al benché minimo intento di "mainstream", un distillato letale di pop perfetto ad uso e consumo di tutte le generazioni, un caposaldo poco frequentato della musica moderna che attende tuttora il dovuto riconoscimento.

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