Era il 1975 e avevo 15 anni. Il mio mondo e quello dei miei amici era principalmente popolato dai Genesis, dai Pink Floyd, gli Yes, i King Crimson e la PFM, orgoglio dei giovani rockettari italiani.

Quando uscì "Chocolate King"s fu un piccolo trauma. Già la copertina trasgressiva metteva un po' a disagio (vi ricordo che erano altri tempi) poi al primo accenno di canto di un certo Bernardo Lanzetti, arruolato come voce solista di un gruppo alla perenne ricerca di una voce solista, beh... il risultato fu al di sotto delle aspettative. Sbagliando, almeno in parte.

Però quella voce troppo americana, una voce troppo entrante che soffocava le belle melodie e i virtuosismi musicali di Mussida e company fino al punto da non accorgersi in quel momento che, dopo Storia di un Minuto, eravamo di fronte a un altro capolavoro della Premiata Forneria Marconi.

Anzi, "Chocolate King"s per certi versi supera il glorioso loro primo album perché qui c'è la maturità nelle performance individuali e corali, nelle liriche e nel messaggio.

Ma a noi quindici/venticinquenni scocciava questa americanata: perché un ellepi così anglosassone? Forse per tuffarsi a capofitto nel promettente mercato americano e inglese? A quei tempi nel nostro mondo di appassionati del progressive rock il termine "commerciale" era dispregiativo nei confronti di quei gruppi che passavano dal creare opere d'arte a dischi prodotti per vendere, a servizio dei diktat delle case discografiche, sintomo di un sopraggiunto arrivismo che sanciva la perdita della "purezza". Forse non li capimmo troppo, forse loro volevano invece entrare nel gotha della musica rock mondiale, sentendosi bisognosi di evolversi e di affiancare sui gradini più alti i gruppi più famosi. Peccato di presunzione? Le potenzialità c'erano ma qualche errore strategico non fece decollare questo album. Troppo americano per gli italiani e troppo rivoluzionario per gli americani, con la copertina d'oltreoceano che con quella bandiera statunitense accartocciata non fu d'aiuto per niente, anzi.

Che dire dei brani, che dire più di quello già detto dai miei predecessori recensori? Ottimo primo brano d'ingresso "From Under" con ottimo inizio d'album, bello e distinguibile; "Harlequin" il brano migliore; "Chocolate Kings" punto debole in quel tentativo di rinnovare un successo alla Celebration, infelicemente tarantellato e non più ormai originale, highlight mancata. Poi "Out on the Roundabout" bello e il più prog dell'album assieme ad Harlequin. "Paper Charms" struggente brano finale ricco di contenuti positivi contro le droghe.

Di notevolissima fattura le prestazioni di Franco Mussida e Flavio Premoli, all'altezza il bassista Patriick Djivas e Franz Di Cioccio, sottoimpiegato Mauro Pagani. Di Bernardo Lanzetti, voce dotata e di bell'accento americano, ne abbiamo già parlato; poteva esserci un altro al suo posto ma tutto il progetto allora doveva essere un po' diverso.

Insomma, sottovalutato dalla critica e soprattutto dai fans che con orgoglio pensavano "ci siamo anche noi italiani" in questa rivoluzione culturale musicale anni settanta ma che proprio per questo si aspettavano un album più "italiano", sono io ora qui a rivalutarlo e a dargli il giusto merito artistico, perché in tanti possano conoscerlo e apprezzarlo magari stimolati da queste riflessioni/ricordi. Ve lo consiglia un cinquantaduenne che c'era e che nonostante tutto quest'album lo ha sempre avuto nel cuore.

Era il 1975 e un gruppo italiano onorava la creatività italiana e si ergeva a baluardo, lodevole strascico progressive ricco di individualità, in un mondo che lasciava il passo - ahimè - al punk rock e alla new wave.

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