Introduzione:

I Procol Harum sono un’istituzione del progressive pop inglese, attraverso i loro oltre cinquant’anni di carriera punteggiata da tredici album in studio. In Italia li abbiamo accantonati troppo presto… Consiglio agli appassionati di pop, di progressive, di buona musica di dare loro una ripassata o un’approfondita, specie se cresciutelli (la musica dei Procol è “adulta” se mai ce ne fosse una, e lo era già anche quand’erano giovincelli)

Contesto:

2017: quattordici anni dopo il lavoro precedente “Wheels of Fire”, ed esatto cinquantenario da “A Whiter Shade of Pale”. Non c’è Robin Trower alla chitarra (da mo’… 1971) ma il sostituto Geoff Whiterhorn ci sa fare, caldo e adeguato. Non c’è Matthew Fisher all’organo e questo si sente, il suo tocco e stile unici (Bach permettendo) tenevano botta al piano del leader Gary Brooker e sovente lo surclassavano. Non c’è neppure l’eccellente paroliere Keith Reid e questa è la prima volta che succede; è sostituito da un altro vecchio espertone: Pete Brown, quello dei Cream.

Punti di forza e lacune:

La voce, il pianoforte e la composizione di Gary Brooker sono più che mai la ragione di essere dei Procol Harum. Musicista non virtuoso ma consistente, espressivo, personale, creativo. Molta acqua è passata sotto i ponti, molte bottiglie di cognac. Ci voleva il cinquantenario di carriera per mettere insieme le forze e sparare sul mercato, senza schiamazzi, giusto per i fedeli estimatori, queste nuove undici canzoni, la metà delle quali soprassedibili ma l’altra metà più che adeguate.

Vertici dell’album:

I pezzi migliori cominciano subito con l’incipit “I Told on You”: intro elegante di pianoforte in stile Supertramp, che se poi attaccasse la voce di Rick Davies invece di quella di Gary Brooker (beninteso i battistrada di queste songs a pianetto ribattuto furono i Procol Harum, attivi dal 1967 e non i Super che iniziarono invece nel 1970) la faccenda non farebbe un plissé.

Image of the Beast” è forse il migliore del lotto: un rock blues con solido e perfetto riff di chitarra.

Neighbour” conquista per i suoi cori throwaway (usa e getta) come dicono gli inglesi, anzi alfine addirittura umoristici, per qualche verso reminiscenti di certe cose fatte da Pete Townshend sia da solo che con gli Who.

Businessman” e “Can’t Say That” sono entrambi vigorosi rock blues, chissà perché piazzati l’uno dopo l’altro in scaletta invece di distanziarli a rendere la successione dei brani più altalenante. Nulla di epocale ma c’è vigoria, begli impasto di chitarra organo e batteria, i cantati di Brooker che dimostra di sapere ancora urlare. Meglio il secondo, dei due: contiene più idee e soprattutto una bella successione di assoli di chitarra e poi d’organo, professionalmente ficcanti.

La conclusiva “Somewhen” è solo il capobanda Brooker, voce e piano. Ed è sempre bello sentire un’accoppiata così, ci sta bene a chiudere le danze. Niente di memorabile però, la melodia la si gusta nel durante e la si dimentica nel subito dopo.

Il resto:

Last Chance Motel” è deboluccia. Amabilmente prevedibile. Cantata inutilmente bene da Gary specie nel vigoroso coro di ritornello.

Soldier” è scopertamente irritante nella sua melodia stantia, dato che ricorda in parecchi passaggi la Dylaniana “Blowin’ in the Wind”: da far cadere le braccia.

Anche ”Don’t Get Caught” non sa di molto: ritornello telefonato. Si lascia ascoltare solo per il bel tappetino d’organo e lo stesso si può scrivere per “Sunday Morning”… Brooker ce la mette tutta dimostrando di prendere le note tenorili ancora con una certa possanza, ma non c’è altro.

Non mi dice molto “The Only One”, lenta e dilatata ballatona dall’evoluzione armonica scontata dall’inizio alla fine. Messa giù con classe ma senza creatività… potrebbe cantarla Phil Collins, con quel ritornello dispiegato e romantico da casalinghe disperate.

Giudizio finale:

I Procol Harum hanno fatto troppo bene alla mia mente e al mio cuore per riuscire a trattarli male. In realtà lo stroncamento se lo meritano per uno solo dei loro dischi: “The Prodigal Stranger” del 1991, veramente indigeribile.

Questo qui è… buono, onesto, da sei e mezzo. Chissà se sarà l’ultimo, spero di no. Somewhen (prima o poi) potrebbero tornare ancora una volta, lo dice l’ultima canzone.

Carico i commenti... con calma