Ho urgenza e necessità di un nuovo necrologio… i padri fondatori del rock classico se ne stanno andando ad uno ad uno e in questo stesso mese di febbraio, dieci giorni a seguire dalla dipartita di Ian McDonald co-fondatore dei King Crimson, se n’è andato sabato scorso pure un altro dei miei eroi, vale a dire Gary Brooker il cantante, pianista, compositore, co-fondatore dei Procol Harum: settantasei anni, e la fatalità del cancro anche per lui, come McDonald.

Scelgo perciò di celebrarlo vergando due righe a proposito di quest’opera del 2003, forse la migliore dei Procol dai tempi eroici dei primi sei album, 1967-1971. Gary vi canta bene come sempre, porta qualche egregia canzone di sfavillante qualità compositiva, allunga il brodo con riempitivi dignitosi; ma soprattutto fa pace nell’occasione col suo organista storico Matthew Fisher, e questo è decisivo: l’elegante stile all’Hammond del vecchio amico-nemico, il particolare timbro e tocco, entrambi niente di meno che sontuosi e riconoscibili senza sforzo, sono la ciliegiona sulla torta in questo disco che vede riuniti i due tastieristi come non si verificava dal 1969, ai tempi del terzo album “A Salty Dog”.

An Old English Dream” in apertura è poco interessante nelle strofe ma riesce a salire di tono nel ritornello, bello lirico. “Shadow Boxed” un ritmato ma scialbo rock, è proprio uno dei riempitivi. “A Robe of Silk” è marchio di fabbrica, anche se non entusiasmante: e questo già dall’inizio di sola batteria, dalla progressione armonica così Brookeriana, financo al poetico titolo (in azione Keith Reid, loro paroliere e a pieno titolo membro del gruppo, cosa accaduta, a mio ricordo, solo a loro ed ai King Crimson di Pete Sinfield.

The Blink of An Eye” è un lento anonimo, con solo una spolverata delle stimmate melodiche a’la Procol Harum, che non riescono a togliere quell’andazzo manieristico alla composizione. Certo che Brooker alla sua età (qui, 58 anni) non ha ancora perso un’oncia della potenza e dell’ottima estensione della sua emissione: grande vocalist. “The Vip Room”, che segue a contrasto, gode di un eccellente riff piano-chitarra, nonché di un robusto cantato teso e appassionato, persino di un feroce solo di slide guitar degno di un Rory Gallagher): una delle migliori.

The Question” offre la rarità del piano elettrico, strumento da Brooker cortesemente pressoché ignorato per tutta una carriera. Il pezzo è un rhythm & blues telefonato ma aggraziato, con semplici e gentili stacchi di accordi jazz da parte sia del boss che del luogotenente Fisher. “The World Is Rich” è il piccolo capolavoro, in virtù di una sequela di accordi geniali e ricercati. Il brano tarda a prendere quota a causa di un preludio mormorato in coro, ma poi la melodia del cantato è sontuosa, così strana sopra quegli accordi insoliti… Tanta, tanta classe.

Fellow Travellers” non dice niente, la melodia non “buca” e ricorda qualcos’altro già fatto o sentito in passato, e l’arrangiamento non osa niente. Fa una gran figura invece “Wall Street Blues”, a merito di un bel riff deciso piano+chitarra: è un rock blues caldo e americaneggiante, in mezzo tempo, canonico se si vuole ma perfettamente arrangiato, interpretato, costruito. Per inciso (esticazzi?…certo) l’ho eletto a suoneria del mio Xaomi. Fa un bel contrasto colla successiva “The Emperor’s New Clothes” che è molto progressive, iniziando con solo piano e voce e poi sviluppandosi molto romanticamente e rapsodicamente.

Le ultime tre cose dell’album sono un ironico funky rock (alla maniera Procol… molto… signorile) variegato di chitarra col wah wah, a titolo “So Far Behind”, poi l’acceso rock blues “Every Dog Will Have His Day” nella quale Brooker si permette di… ululare facendo onore al titolo, ed infine il contributo strumentale di Matthew Fisher, un tentativo non riuscito di rinverdire i fasti di “Repent Walpurgis” e di “Whiter Shade of Pale”, due degli indimenticabili capolavori del primo album del 1967. Il suo titolo è ancor più astruso di quelli: “Weisselklenzenacht”, che tento seduta stante di tradurre con “Notte bianca di Klenze” (?! Architetto bavarese del ‘700).

Un grazie di tutto anche al baffuto, poi barbuto, ora deceduto Gary Brooker, un grande. Molte sue cantate, e molte delle sue linee di pianoforte, sono nella storia del rock, ma in particolare nel mio cuore, intristito da queste dipartite di gente di grande valore che ha dedicato la vita a far star meglio tante persone, me compreso. Corro pertanto a ripassarmi la discografia dei Procol Harum, che nella mia ciditeca d’altronde non prende mai la polvere. Ora che Brooker non c’è più, ascoltarlo sarà un’esperienza con un altro sapore, un pizzico di malinconia in più.

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